Tutto mettevano in comune. Il sogno degli Atti degli Apostoli e la vicenda di Nomadelfia

Don Zeno Saltini (1900-1981), il fondatore di Nomadelfia

Nel 2017 don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, nel 2018 don Tonino Bello, nel venticinquesimo anno dalla morte, e don Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia, nel settantesimo anniversario degli inizi. Papa Francesco non perde occasione per fare memoria di preti discussi in vita ma testimoni autentici del Vangelo. Un pellegrinaggio per richiamare – attraversa la loro vicenda – il monito dell’Evangelii Gaudium (49): “preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”.

A Nomaldefia, dove la fraternità è legge

Almeno cinquemila figli accolti, una comunità dove tutti i beni sono in comune, è bandita la proprietà privata e non circola denaro. Dove si lavora solo all’interno e non si è pagati. Dove le famiglie sono disponibili ad accogliere figli in affido. Quattro o cinque famiglie insieme formano un “gruppo familiare”. Dove le scuole sono interne e l’obbligo scolastico è stato portato a 18 anni.

Così si presenta Nomadelfia, oggi una comunità di 50 famiglie e 270 persone a pochi chilometri da Grosseto, in piena Maremma toscana. Tutto è nato dalla convinzione di don Zeno Saltini che il Vangelo genera una nuova civiltà e che non era utopia la vita delle prime comunità cristiane. Ricordate Atti 4,32-25?

La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava proprietà quello che gli apparteneva ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti era tra loro bisognoso, perché quanti possedevano campi e case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.

In nome del Vangelo una nuova civiltà. La straordinaria figura di don Zeno

Zeno Saltini nasce a Fossoli, una frazione di Carpi, nel 1900. Cresce in una famiglia patriarcale emiliana. A 14 anni rifiuta la scuola, a 20 la civiltà: “Né padrone, né servo, cambio civiltà in me stesso”. Si dedica a chi sta ai margini.  Studia da avvocato per difenderli in tribunale ma si rende conto che hanno bisogno della famiglia. A 31 anni viene ordinato sacerdote e prende come figlio un ex-carcerato, Barile, il primo di molti. “La mia messa è quella lì: sposo la Chiesa, le do un figlio, non un assistito. Odio l’assistenza”. Nel suo impegno con l’Opera Piccoli Apostoli, ragazzi abbandonati, si rende conto dell’incoerenza di tanti credenti. Scrive nel suo diario nel febbraio del 1938:

Il clero non capisce l’ora e l’indole dei tempi. Perché non lo ama e non ne vuole sapere di discendere al popolo; di spirito è un signorotto, un gerarca, non un padre. Anche le suore hanno questa mentalità. È la troppa preghiera che le ha rovinate. Il ripetersi d’atti d’amore spirituale, non attuati, quindi astratti, ha sdoppiato la loro anima. Che paradosso crederci qualcosa più degli ultimi e curare le anime divise dal corpo! Da questo punto di vista i crocefissori di Gesù nel popolo sono i suoi ministri e le suore. In gran parte è una spiritualità evanescente. Quando va male, i primi a sentirne gli effetti, anche nel fisico, dobbiamo essere noi, non i fanciulli né il popolo”.

Nel 1941 accoglie una ragazza che scappa di casa per fare da mamma agli abbandonati. Predica in piazza, propone alle famiglie di fraternizzarsi. Alla fine delle guerra lancia il movimento dei due mucchi: “Chi ha i soldi da una parte, chi non li ha dall’altra…”. Nel 1948 occupa l’ex-campo di concentramento di Fossoli. Sulle macerie dell’odio nasce Nomadelfia, parola che in greco vuol dire “dove la fraternità è legge”. Pretende di svuotare gli orfanotrofi, liberare i carcerati. La comunità ha il sostegno di tanti (e tra questi padre Turoldo, Danilo Dolci, Giovanni Vannucci), arriva a superare i mille membri, la gran parte di questi orfani e persone senza casa e lavoro.

In quegli anni fa discutere e inquieta la vicenda di una comunità che, nell’Emilia rossa, in nome del Vangelo, si regga in forma collettivista, parli di giustizia, abbia simpatia per i lontani. Alle elezioni del 1951 i suoi negano il voto alla Democrazia Cristiana, la quale induce il Vaticano, l’anno dopo, a ritirare i sacerdoti da Nomadelfia. La situazione si complica, anche finanziariamente. Don Zeno viene processato per una denuncia dei creditori ma è assolto. Si decide quindi di chiudere l’esperienza di Fossoli. Scriverà Filippo Sacchi su “La Stampa” (17 dicembre 1953):

In questo paese dove centinaia di enti parassitari succhiano lo Stato, dove si buttano via miliardi per finanziare esposizioni inutili, manifestazioni balorde e stagioni vuote, non s’è trovato niente per aiutare don Zeno e Nomadelfia che mantenevano 700 bambini dispersi e privi di famiglia. Peggio. Quando la situazione precipitò, per essere sicuri che non potessero più sfuggire di mano, che non potessero più rialzare la testa, s’impose per loro la forma più odiosa e peggiore: la liquidazione coatta. Un bel giorno la polizia arrivò a Nomadelfia. I ragazzi furono tolti alle mamme adottive, caricati coi loro fagotti sui camion e sparpagliati per tutta l’Italia in istituti diversi, da dove scrivono ancora lettere accorate, e di tanto in tanto scappano.

Chi resta si trasferisce, per lo più sotto grandi tende, a Grosseto in una estesa proprietà donata dalla contessa Giovanna Albertoni Pirelli. Ma le  calunnie nei confronti del “prete rosso”, antifascista e partigiano, non terminano al punto che nel 1953 è don Zeno stesso a chiedere la dimissione allo stato laicale. “Se non posso essere loro padre come sacerdote, lasciatemelo essere come laico”. Nel 1954 don Zeno crea i “gruppi familiari”. Nel 1961 i nomadelfi si danno una nuova Costituzione come associazione civile, e don Zeno chiede alla Santa Sede di riprendere l’esercizio del sacerdozio. Nomadelfia viene eretta in parrocchia e don Zeno nominato parroco. Il 22 gennaio 1962 celebra la sua “seconda prima messa”.

Nel 1965 don Zeno propone ai nomadelfi una nuova forma di apostolato: le “Serate di Nomadelfia”, uno spettacolo di danze che ancora oggi viene preparato ogni anno e gira, soprattutto d’estate, lungo l’Italia intera e il mondo. Nello stesso anno i nomadelfi ottengono dal Ministero della Pubblica Istruzione di educare i figli sotto la loro responsabilità, nella propria scuola interna. Il 12 agosto 1980 presentano a Giovanni Paolo II, nella villa di Castelgandolfo, una “Serata”. Davanti a tutta la popolazione di Nomadelfia papa Woityla dice loro: “Se siamo vocati ad essere figli di Dio e tra noi fratelli, allora la regola che si chiama Nomadelfia è un preavviso e un preannuncio di questo mondo futuro dove siamo chiamati tutti”.

Don Zeno muore pochi mesi dopo, il 15 gennaio del 1981. Nel 2009 viene aperta la causa di beatificazione. Della sua incredibile vicenda resta la domanda che il grande Dino Buzzati in un magnifico articolo scritto per il Corriere della Sera il 26 maggio del 1965 si pone: “Possibile che degli uomini in carne ed ossa come noi abbiano potuto realizzare il Vangelo in piena letizia?” Per poi proseguire:

Siamo a 12 chilometri da Grosse. Dodici, o 12 miliardi di chilometri? Vien fatto di chiedersi, tanto ci si sente lontani dal solito mondo. Perché qui a Nomadelfia avvengono cose incredibili. Il sogno dei santi qui è diventato realtà quotidiana… Chi arriva per la prima volta ha il dubbio che sia tutta una montatura, retorica, belle parole, illusione. Poi guarda, ascolta, domanda e resta imbesuito”.