La memoria di Aldo Moro e i politici di oggi. Gianni Gennari: «Non ci si può improvvisare»

Il caso Moro, quell’insieme di vicende dolorose e intricate relative all’agguato, sequestro, prigionia e all’uccisione di Aldo Moro, resta ancora un caso aperto fatto di misteri e depistaggi. Sono trascorsi quasi quarant’anni dal 16 marzo 1978 quando a Roma in via Mario Fani, l’auto che trasportava Aldo Moro, allora Presidente della Democrazia Cristiana, dalla sua abitazione alla Camera dei Deputati fu intercettata e bloccata da un nucleo armato delle Brigate Rosse, che uccise i cinque uomini della scorta sequestrando l’onorevole Moro.

La mattina di quel fatale giorno il nuovo governo guidato da Giulio Andreotti stava per essere presentato in Parlamento per ottenere la fiducia. Dopo 54 difficilissimi giorni di sequestro, segnati dalle lettere di Moro dalla cosiddetta “prigione del popolo”, il 9 maggio 1978 arrivò la telefonata del brigatista Valerio Morucci che annunciava la sua morte. Il corpo fu fatto ritrovare, simbolicamente, in via Caetani, poco distante dalle sedi del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Poche ore dopo il ritrovamento del cadavere dello statista all’interno del bagagliaio di una Renault rossa, Francesco Cossiga si dimise da Ministro dell’Interno. Il rapimento e l’uccisione del leader della Dc segnarono come una linea di demarcazione nella storia del nostro Paese.

A distanza di decenni sono arrivati i giorni delle memorie e dei bilanci. Ci aiuta in questa operazione di ricostruzione dei fatti Gianni Gennari, noto polemista, giornalista, teologo, studioso di santa Teresa di Lisieux, testimone diretto di quei giorni bui.

Gennari, nato il 2 aprile 1940 a Roma, conobbe personalmente lo statista Dc e fu minacciato di morte da Francesca Mambro, esponente di spicco del gruppo eversivo d’ispirazione neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari, l’8 marzo del ’78, otto giorni prima del rapimento Moro. «Conoscevo Moro – rammenta Gennari da noi intervistato -, perché qualche volta in estate lo statista era venuto alla Messa che celebravo sulle Dolomiti, l’ultima volta che lo vidi fu a Roma, per caso, a un cinema di via Taranto. Moro stava insieme con il Maresciallo Leonardi che lo accompagnava sempre. Un saluto, un sorriso e via».

“Non c’è ancora verità, né quella storica, né quella giudiziaria, e tanto meno quella politica. Moro non fu colpito perché era un simbolo, come si disse, ma per fare un’operazione chirurgica sulla politica italiana, per fermare il suo progetto”. In un’intervista del 1998 Giovanni Moro accusò il cosiddetto “partito della fermezza” di aver ucciso suo padre. Che cosa ne pensa?

«È vero che Moro venne ucciso per mettere fine al suo disegno politico che riguardava anche i suoi rapporti con gli Stati Uniti, con l’Unione Sovietica di allora e anche con Israele. Secondo il mio parere Giovanni Moro ha torto a prendersela con il cosiddetto “partito della fermezza”, che in qualche misura non c’è mai stato. Coloro che non hanno consentito un dialogo paritario con le Br, hanno sperato fino in fondo che lo statista Dc si salvasse. Mettere contro la vita di Moro, Paolo VI ed Enrico Berlinguer è un’ingiustizia storica di cui sono stato testimone personale. Furono fatti tutti gli sforzi possibili soprattutto da Papa Montini e della Santa Sede, attraverso Mons Cesare Curioni intermediario nei confronti dei capi delle Br di allora. Renato Curcio e Alberto Franceschini, fondatori ed esponenti di spicco delle Brigate Rosse, con Margherita Cagol, erano in prigione. Erano stati arrestati nel settembre del 1974 al passaggio a livello di Pinerolo, dove avevano un appuntamento con Mario Moretti, altro militante delle Br durante gli “anni di piombo”. Quest’ultimo non si presentò e dopo l’arresto di Curcio e Franceschini divenne il capo delle Br, nonché l’ideatore della “strategia della tensione” e del rapimento Moro. Da quel momento le Br furono in mano di Moretti con tutte le conseguenze del caso, Non è vero che “il partito della fermezza” rifiutò di salvare Moro, rifiutò l’idea che si potesse trattare su un piano di parità con le Br, promuovendo un gruppo di terroristi a interlocutore politico delle Istituzioni».

Lei venne ascoltato dalla Commissione dinchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, perché nel periodo del sequestro dello statista democristiano era assistente spirituale di Benigno Zaccagnini, allora segretario della Dc, e aveva contatti con diversi esponenti politici. Ce ne vuole parlare?

«Finalmente dopo 39 anni, nell’ottobre del 2017, sono stato convocato dalla Commissione, eppure avevo già scritto nel 2011 un memoriale pubblicato in esclusiva in tre puntate su Affaritaliani.it. La sera dopo il rapimento mi chiamò la cognata di Benigno Zaccagnini, Ettorina Brigante, sorella di sua moglie Anna, la quale abitava in via della Camilluccia, perché Zaccagnini (il quale quando veniva a Roma era ospite del cognato, il dottor Elio Brigante) aveva bisogno di un sostegno spirituale. Trascorsi tantissime notti di quei 54 giorni a pregare con Benigno e la famiglia Brigante. Allora potei constatare le falle nel sistema di sicurezza: la sera dopo il rapimento Moro, arrivai fino alla portineria del palazzo dove stava Zaccagnini, segretario Dc, senza aver incontrato qualcuno che mi fermasse, mi controllasse, ecc. Nell’androne della portineria i poliziotti giocavano a carte, con le armi appoggiate a cinque metri di distanza. Eppure dicevano che allora Roma era sotto controllo».

Era molto amico di Mons Cesare Curioni, allora storico cappellano a San Vittore e poi ispettore generale dei cappellani di tutte le carceri italiane, il quale portò avanti l’iniziativa di raccogliere 10 miliardi dell’epoca per offrirli come riscatto alle Brigate Rosse, in cambio della vita di Aldo Moro. È vero che l’iniziativa partì direttamente da Paolo VI?

«Certamente, avvenne tutto attraverso Curioni, il quale parlò anche con Curcio e Franceschini che si trovavano in prigione. Questi brigatisti all’interno del carcere dicevano a tutti “Lo abbiamo in mano”, invece apertamente a Mons Curioni dissero “Non ne sappiamo nulla”. Nel numero di aprile del 1978 di “Civiltà Cattolica” c’era scritto che, pur senza un riconoscimento, bisognava fare tutto il possibile per la salvezza di Aldo Moro. Paolo VI aveva preso un impegno personale, erano stati raccolti 10 miliardi di lire per un eventuale riscatto. La mattina del 9 maggio era attesa una telefonata liberatoria che avrebbe significato l’accettazione dello scambio, liberare Moro in cambio della scarcerazione della brigatista Paola Besuschio che era in prigione. Fanfani aveva l’incarico nella direzione della Dc di annunciare che si era trovata una mediazione. Invece, proprio quella mattina, arrivò come una “doccia fredda” la tragica notizia del ritrovamento del corpo di Aldo Moro».

“Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui”. Il 22 aprile 1978 Papa Montini scrisse di suo pugno una lettera-appello alle Brigate rosse che da più di un mese tenevano prigioniero il Presidente della Dc. Quella supplica svelò la grandezza del Pontefice legato da una profonda amicizia con Moro?

«Sì, e non è un caso se Montini muore pochi mesi dopo quel tragico 9 maggio, il 6 agosto. Moro e Montini si conoscevano fin dagli anni Trenta. Nel 1939 Montini, assistente generale della Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), aveva voluto come presidente dell’associazione il giovane Aldo Moro. L’amicizia tra Moro e Montini era quindi di lunga data e al di sopra di ogni sospetto. Tornando ai giorni del sequestro, durante la notte Papa Montini chiamò al telefono Curioni, che allora si trovava ad Asso in provincia di Como per un periodo di ferie, e insieme concepirono l’appello. Fin dalla prima stesura risultava quella frase “senza alcuna condizione”, sulla quale si è fermata la curiosità lungo tutti questi anni. Si trattava non solo di salvare la vita di un uomo, giacché Paolo VI aveva molto chiaro il fatto che il progetto di politica interna ed estera di Moro era vicino alle prospettive della sua “Ostpolitik”. È arrivato il momento di parlare del “Compromesso storico” cioè la tendenza al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, osservata nel nostro Paese negli anni Settanta. Il segretario comunista Enrico Berlinguer e il presidente democristiano Aldo Moro, furono i principali fautori dell’opera di riavvicinamento tra le rispettive (e opposte) forze politiche, del Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana. Il loro disegno si era delineato già dal 1973. Il rapimento e l’assassinio di Moro fermarono tutto. Credo che l’unico che abbia chiara tutta la strategia sia Mario Moretti, basterebbe cominciare da quel mancato appuntamento a Pinerolo, dove lui non si fece trovare».

Quarant’anni dopo, qual è il pezzo di verità ancora da cercare oppure “l’Affaire Moro” resta un problema insoluto che riguarda il nostro Paese?

«Quel pezzo di verità ancora da cercare sarà difficile da rintracciare. L’”Affaire Moro” porta a qualche strategia in cui spuntano i servizi segreti italiani, israeliani, statunitensi e anche palestinesi con i quali Mario Moretti, attraverso anche personaggi appartenenti alle forze dell’ordine che fecero carriera, dal 1974 in poi, ha avuto rapporti. Se l’”Affaire Moro”, presenta ancora oggi molti lati oscuri, restando un mistero, resta invece chiarissima la strategia di chi ha voluto che quel progetto, che avrebbe cambiato il volto della politica italiana, non si realizzasse. Si sarebbe dimostrato che era possibile un cambiamento, chiamiamolo così, verso un socialismo dal volto umano, senza rivoluzione, senza sangue e senza armi. Il “Compromesso storico” era temuto dagli Stati Uniti, da Israele, ma era temuto anche dall’Urss. Basti pensare che il socialismo dal volto umano l’Urss l’aveva soffocato in Ungheria e Cecoslovacchia. Resta oscuro tutto l’intrico di corresponsabilità, di silenzi, segreti, falsificazione di documenti, che impedisce di arrivare alla verità sulla vicenda Moro».

In Italia per tanto tempo l’espressione “politico di professione” era diventata quasi un insulto, tanto è vero che oggi è motivo di vanto per i nuovi eletti in Parlamento non essere un politico. Nonostante ciò, come testimoniano tutte le ricerche, molti italiani confessano di avere nostalgia per i Moro, i Craxi e i Berlinguer che di mestiere facevano politica. Qual è il Suo parere al riguardo?

«Per fare politica occorre avere una reale esperienza e una preparazione specifica. Quindi non ci si può improvvisare dall’oggi al domani. La politica è anche capacità di leggere la realtà sociale, è coinvolgimento con i problemi della gente, non è soltanto fatta di rimborsi elettorali o di immunità parlamentari. Se penso a De Gasperi, Togliatti, Nenni, Pertini, Zaccagnini e allo stesso Andreotti, nel paese di Lilliput, Gulliver è un gigante».