Francesco sulla tomba di don Tonino Bello. Il vescovo secondo il Vangelo, non secondo il buonsenso

La tomba di don Tonino Bello

C’è morte e morte. C’è qualcuno, anche famoso, di mondo e di Chiesa, che è morto prima ancora di morire e ci sono altri che sono vivi anche da morti, perché per loro parlano persone e libri, parole e scelte.

Tra quest’ultimi trova senz’altro posto la figura di don Tonino Bello. A venticinque anni dalla morte, avvenuta il 20 aprile 1993, le “parabole” del vescovo che ha sempre rifiutato il titolo di monsignore, non hanno cessato di scuotere le coscienze. Almeno a giudicare dall’enorme quantità di articoli, libri, dibattiti e convegni, ancora oggi promossi per ricordarne la figura.  I suoi testi, così letti e così venduti quando era in vita, sono spesso esauriti e introvabili in libreria.

La sua parola, poetica ed evocativa, mai astratta, sempre costellata di nomi propri e di volti, di simboli e di metafore, ha catturato l’attenzione di tanti, soprattutto giovani. Il popolo della pace, che lo aveva avuto come compagno nel viaggio a Sarajevo, ma anche il popolo semplice, dei cristiani comuni, ha subito voluto bene ad un vescovo che, come pochi, ha saputo usare la penna per cantare le meraviglie di Dio e i dolori dell’uomo. Molto spesso il coraggio lo si ha quando non si ha più nulla da perdere. Don Tonino è stato invece capace, anche a costo di essere incompreso, di gridare – da vescovo –  sui tetti l’urgenza di costruire una terra più vicina al sogno di Dio. Costi quel che costi.

Aveva dunque ragione padre Turoldo quando, nell’introdurgli una raccolta di lettere, scrisse: “Caro fratello vescovo vorrei dirti quasi paradossalmente: non inoltrarti troppo su queste strade dei poveri. Vedrai quanto dovrai soffrire! Prima, perché i poveri quando sono presi tutti insieme, quando sono tanti, fanno veramente paura: ti producono dentro un’angoscia di cui non guarisci più. Poi, perché vedrai la gente come ti parlerà dietro, come ti farà l’anima a brani. Quanti ti diranno di non esagerare, di essere prudente, di non lasciarti ingannare. Ti grideranno dietro: “Tanto più che sei vescovo” rovesciando precisamente al completo la prima e fondamentale verità, perché così dovrebbe essere: “proprio perché sei vescovo”.”

Avere a che fare con i poveri con nome, cognome e codice fiscale

Don Tonino (termine che terrà con orgoglio anche quando sarà nominato vescovo) nasce nella cittadina salentina di Alessano, vicinissima a Santa Maria di Leuca, il 18 marzo 1935. Figlio di un maresciallo dei carabinieri e di una donna semplice e di grande fede, trascorre l’infanzia in un paese di diecimila abitanti ad economia agricola impoverito dall’emigrazione. Di quella stagione, ricordava “la miseria e la fatica ma insieme anche la memoria delle cose semplici e pulite”. Durante la prima concelebrazione da vescovo presieduta ad Alessano dirà durante l’omelia:

Grazie, terra mia,  piccola e povera, che mi hai fatto nascere povero come te, ma che proprio per questo mi hai dato la ricchezza incomparabile di capire i poveri di potermi oggi disporre a servirli.

Ragazzino sveglio, finite le elementari, viene mandato in seminario, prima ad Ugento poi a Molfetta. Teologia la studia a Bologna, al seminario di studi sociali dell’Onarmo (opera nazionale assistenza religiosa e morale degli operai) che preparava preti che si cimentavano nella realtà delle fabbriche e nella pastorale del mondo operaio.

L’8 dicembre 1957 è ordinato sacerdote e dopo aver conseguito la Licenza presso il seminario di Vengono a Milano (la laurea la conseguirà nel 1965 alla Lateranense) viene nominato maestro dei piccoli seminaristi di Ugento. Nei successivi 18 anni – prima come prefetto, poi vice rettore e infine rettore –  sarà capace di mediare tra severità del metodo ed esigenze giovanili.

Alla fine degli anni settanta è nominato parroco di Trifase, una cittadina salentina con quindicimila abitanti: l’esperienza in parrocchia gli fa toccare con mano l’urgenza dei poveri, dei disadattati, degli ultimi.  Scriverà:

quello che ho vissuto da parroco non lo potrò scordare mai. Stare in mezzo alla gente, chiamare i parrocchiani per nome, entrare nelle loro case in momenti di festa e di dolore, vivere con loro il gaudio esaltante della domenica, progettare con loro i momenti forti della vita parrocchiale, avere a che fare con i poveri con nome, cognome e codice fiscale, profumar di popolo… è stata l’esperienza che ho vissuto nella stagione più felice della mia vita.

Una stagione che non dura molto perché, quasi subito, gli viene chiesto di diventare vescovo. Per due volte rifiuta, la terza scrive al Papa una bellissima lettera (“la mia accettazione, oltre che carica di incertezze, è anche permeata di molta tristezza: mi fa così soffrire il pensiero di dove lasciare questo popolo che ho amato e servito per tre anni, che riterrei una grazia straordinaria del Signore poter continuare a lavorare nella mia parrocchia ancora per qualche tempo”) che non impedisce però l’arrivo della nomina ufficiale. Ordinato vescovo il 30 ottobre 1982, fa il suo ingresso nella diocesi di Molfetta – Ruvo – Giovinazzo – Terlizzi il 21 novembre dello stesso anno.

Contempl-attivi, in nome del Vangelo

Nel 1985 viene chiamato a succedere a Mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, nella guida di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace. Con una delle sue originali ed appropriate intuizioni linguistiche egli traccia le linee per una spiritualità impastata con la terra definendola “contemplattiva“.

La beatitudine evangelica degli operatori di pace diventa ben presto il discrimine per valutare e promuovere azioni concrete, mai approssimate, sempre frutto di una lettura attenta della realtà: la lotta contro il trasferimento degli F16 in Puglia, la scelta dell’obiezione fiscale alle spese militari, la denuncia della militarizzazione crescente della sua regione; le manifestazioni non violente con i Beati i costruttori di pace, la sua appassionata adesione al cartello “Contro i mercanti di morte” che portò nel 1990 all’approvazione della Legge 185 che regola in maniera restrittiva e democratica il commercio delle armi italiane fino alle laceranti polemiche sulla guerra del Golfo del 1991 che gli procurarono ferite e incomprensioni.

L’ultimo gesto, intriso della “follia evangelica”, lo ha visto a capo dell’ “Onu dei poveri”, 500 uomini e donne, entrati, due settimane prima del Natale del 1992, nella città di Sarajevo assediata dai militari e zeppa di cecchini pronti a sparare dalle finestre. Parlando in un cinema senza luce elettrica e con la voce minata dal male che poco tempo dopo l’avrebbe consumato,  proprio a Sarajevo, così descriveva alcuni incontri casuali: ”

Ricordo il gesto di una donna serba che offre il pranzo a dieci croati… Ricordo un signore che ci ha invitato a partecipare al banchetto per la commemorazione del padre. Ci ha detto: “Io sono serbo, mia moglie è croata, queste sono le mie cognate musulmane”. Mangiavamo insieme. Io ho pensato alla convivialità delle differenze: questa è la pace.

Ascoltino gli umili e si rallegrino

Don Tonino, uomo di profezia, è stato soprattutto un uomo di fede.  Quando gli chiesi quale immagine di Dio avesse, mi rispose con una tenerezza che mi commosse:

Mio padre io non lo ricordo. So che piangevo in segreto quando vedevo i miei compagni delle elementari accompagnati dal loro papà. Capisco che è un travisamento: ma Dio me lo sento così. Come un padre dolcissimo, col quale non è difficile confidarmi. Come un partner di cui non bisogna avere paura. Come un compagno affettuoso che al meriggio scende, come nell’Eden, a farsi una passeggiata con me. Sento di non aver soggezione di lui. Anche quando sbaglio, mi sembra più facile chiedergli scusa con un sorriso d’implorazione che con un percotimento di petto. Me lo sento vicino, comunque, tantissimo. Devo, però, dire che spesso mi dimentico di lui, e me ne dispiace, soprattutto quando la sera mi addormento. Ma lo chiamo ugualmente: tanto sono certo del suo perdono.”

Il volto di Dio nel volto dei crocefissi della storia

Era proprio in nome della fedeltà a questo Dio che egli rintracciava il Suo volto dentro i volti dei crocefissi della storia, nelle rughe di coloro che subiscono violenza e ingiustizia. Non a caso il suo motto episcopale è stato Ascoltino gli umili e si rallegrino perché è proprio sulla scelta degli ultimi che don Tonino ha sviluppato la sua idea di Chiesa.  E reclamava, per i cristiani, il diritto alla parola e alla denuncia, contro ogni silenzio e indifferenza.

Per questo, prendeva sul serio alcune scelte che riteneva dovessero essere proprie dei cristiani: prime fra tutte quella della povertà. L’accoglienza, in episcopio, per un lungo periodo, di famiglie di sfrattati, l’orgoglio con cui esibiva il pastorale di legno d’ulivo intarsiato, regalatogli dai contadini della sua terra, il desiderio di avere a che fare con i poveri in carne ed ossa, erano i segni tangibili di una verità vissuta prima ancora che proclamata.

Si capisce quindi perché don Tonino era amato dai piccoli e creava fastidio ai grandi: della politica, della cultura, perfino della Chiesa. Per molti, don Tonino è diventato familiare per una serie di gesti probabilmente “normali” per un cristiano delle origini ma che, nella tiepidezza del tempo presente, hanno corso il rischio di essere letti e interpretati come “scandalosi” e “inopportuni” per un credente, soprattutto se vescovo.

Quando lo intervistai, gli chiesi se non gli dava fastidio essere considerato un vescovo “anomalo”. Lui mi rispose di no. E aggiunse:

bisogna poi vedere che cosa significa essere anomalo. Introdurre in casa i poveri per farli dormire d’inverno, è anomalo per un vescovo, o non è anomalo il contrario?

Al cimitero un continuo pellegrinaggio

Scendo ad Alessano e sosto un paio d’ore al cimitero. La tomba di don Tonino, un piccolo anfiteatro chiuso da una quinta di cipressi e tamerici, è oggi meta continua di un pellegrinaggio anonimo e devoto: giovani che lo hanno conosciuto attraverso i suoi scritti e si raccolgono a leggere i brani dei suoi libri; gruppi di parrocchie lontane che vengono a pregare e a deporre un fiore. Accanto alla tomba è stato piantato un ulivo, simbolo della pace a lui così cara, ai cui rami pendono nastri e fazzolettoni scoloriti, lasciati come pegno di affetto da associazioni e confraternite in visita.

Passano molte persone, si fermano, pregano, toccano la lastra di marmo bianco della tomba. Al termine vado nel centro del paese nella casa natale di don Tonino, oggi sede della Fondazione a lui dedicata. Incontro Marcello, il fratello di don Tonino. “L’annuncio dell’arrivo di papa Francesco lo abbiamo accolto con moltissima gioia”, mi dice.

È il riconoscimento straordinario, un momento di felicità non solo per noi ma soprattutto per tutta la gente che lo ha conosciuto e gli è rimasta affezionata. Rimango sempre impressionato dalle tantissime persone che, da ogni parte d’Italia, scendono qui, a trovare don Tonino al cimitero. Molti sono ragazzi: l’hanno conosciuto unicamente attraverso i suoi testi, hanno incontrato il volto di una Chiesa capace di essere fedele a Dio e all’uomo del proprio tempo. Sì, mio fratello era un credente così. La mia famiglia ha sempre guardato a lui come ad un fratello maggiore, da cui apprendere e a cui, senza problemi, suggerire.

Cosa resta di lui? gli chiedo. “Ho letto e riletto i suoi libri. Ogni volta vi ho trovato stimoli e provocazioni, come se ci fosse il dito di Dio. Credo che resti, in modo specifico, la sua idea di santità. Una santità feriale. Di tutti i giorni e a cui tutti siamo chiamati”.

Ti ho disegnato sul palmo delle mie mani

Ricordo l’ultima conversazione avuta con lui. Era segnato profondamente dal tumore che lo aveva aggredito e devastato. Gli chiesi che cosa stava sperimentando durante quel difficile periodo di prova. Mi rispose così:

Vedi, nel duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta, donato alcuni anni fa da uno scultore del luogo. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino la scritta: “collocazione provvisoria”.

La scritta, che in un primo momento avevo scambiato come intitolazione dell’opera, mi è parsa provvidenzialmente ispirata. “Collocazione provvisoria”. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Ed è una croce che dura da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, te l’assicuro, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio. E poi, in quei mesi di dolore che mi hanno permesso di riassaporare il valore della ferialità, ho  portato con me una frase di Isaia che dice: “Non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sul palmo delle mie mani”. L’ho sperimentato: anche se non sempre riesci a decifrarla, la tenerezza di Dio avvolge la storia di ogni uomo.”