La prima class action contro Facebook: i big data e le crepe nella democrazia “social”

E’ scattata la prima class action contro Facebook e Cambridge Analytica negli Stati Uniti. Un’azione legale collettiva che segue lo scandalo che ha travolto il gruppo, sull’utilizzo improprio dei dati di 50 milioni di utenti dei social network. Un punto di svolta importante, dalle conseguenze imprevedibili: potrebbero essere molte altre, a catena, le cause collettive per la richiesta dei danni provocati dalla mancata protezione dei dati personali. Sotto accusa c’è soprattutto l’uso politico delle informazioni, raccolte senza autorizzazione e usate per favorire la campagna elettorale di Donald Trump. La prima conseguenza del “datagate” è un sussulto di consapevolezza: molti utenti Facebook hanno cominciato a porsi il problema di quali e quanti dati personali abbiano condiviso, senza comprendere a fondo quale uso ne sarebbe stato fatto. Scienziati ed esperti come Viktor Mayer-Schönberger e Kenneth N. Cuckier hanno già tratteggiato nei loro studi gli scenari che avrebbero potuto nascere da un utilizzo massivo dei Big Data: sono numerose le ricadute positive, come la possibilità di elaborare risposte più veloci, economiche e precise sul mondo che ci circonda, superando l’approssimazione dei sondaggi. In questo caso, però, sta emergendo il volto oscuro delle innovazioni tecnologiche: l’analisi delle nostre preferenze, dei nostri gusti, dei profili psicologici ci rende vulnerabili e manipolabili, e mette a rischio l’essenza stessa della democrazia. Non è un caso che dopo il caso della denuncia americana si stiano profilando azioni analoghe in sede politica da parte della Gran Bretagna (e se fosse stata davvero una situazione simile a quella americana a “forzare” il voto per la Brexit?) e del Parlamento Europeo. Secondo le previsioni attuali nel 2020 ci saranno 20 miliardi di dispositivi collegati in rete e questo aumenterà ancora la mole di dati a disposizione. Secondo Christian Rudder (nel libro “Dataclysm: Who We Are When We Think No Ones Looking”) stiamo arrivando al punto “in cui è possibile raccogliere informazioni sui comportamenti senza ricorrere a campioni umani”. Questo rende sempre più urgente una riflessione etica e deontologica sulla raccolta, l’utilizzo e lo sfruttamento dei dati. Una riflessione individuale e collettiva, capace di andare oltre la superficie, di non confondere il profilo di un uomo con quello che pubblica sui social.