Islam e terrorismo: l’ignoranza genera paura. Bisogna tendere la mano per spezzare il cerchio

In questi ultimi anni abbiamo spesso sentito parlare di Islam e di terrorismo. Spesso ne abbiamo sentito parlare in televisione o nei principali social network e ciò che resta sono più che altro le paure; la paura di intraprendere un viaggio, la paura di andare a bere una birra con gli amici, di andare al supermercato a fare la spesa, ma anche la paura del diverso, paura di ciò che facciamo fatica a conoscere e a riconoscere come uomo ma diventa un numero, racchiuso in una categoria a cui non vogliamo avvicinarci.

Purtroppo i fatti di Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino, Londra, Manchester, Barcellona e il rumore e lo sdegno mediatico scaturitone, hanno certamente aumentato la paura nelle persone e in alcuni casi alimentato odio verso un popolo e una religione che sentiamo sempre più vicina e minacciosa intorno e dentro ai nostri confini.

Tre anni fa ho trascorso alcuni mesi in Giordania dove ho svolto un’attività lavorativa nell’ambito del microcredito.

Ho avuto la fortuna di conoscere molte persone con storie di vita e culture diversa dalla nostra; di ascoltare visioni del mondo opposte rispetto a quelle che siamo abituati a sentire noi; di gustare sapori nuovi in un cibo straordinario; di svegliarmi di notte durante il mese del Ramadan e restare affascinato dalla fede incrollabile di donne, uomini e bambini che, ad orari per noi impossibili, si svegliano per recarsi nella moschea più vicina a casa; ho lavorato con donne arabe e musulmane che, con profondo orgoglio e riservatezza, mi facevano capire quanto amore nei confronti di Dio avessero e di quanta pace chiedessero per i loro paesi, da sempre tormentati da guerra e disperazione; di confrontarmi con una lingua aspra e dura, ma morbida e accogliente nello stesso istante, come lo sono le persone che ho incontrato durante la mia, seppur breve, ma intensissima esperienza; di partecipare a casa di un amico all’Iftar, la rottura del digiuno tramontato il sole nel mese del Ramadan, e osservare con stupore come il rispetto per il cibo e la cura nel cucinarlo siano elementi permeati all’interno della loro cultura. Dovunque mi recassi, per strada, nei souk, nei luoghi di villeggiatura più famosi, l’accoglienza era straordinaria.

Ho potuto riposarmi all’interno di una moschea dopo una lunga camminata su e giù per le colline di Amman sentendomi a casa, senza essere guardato male da nessuno, ma solo accolto da sobri “Salam Aleikum, la pace sia con te”.

Bere tè e chiacchierare fino alle quattro del mattino con un signore a Gerusalemme, profondo conoscitore e amante del nostro paese; conosceva i più piccoli villaggi del Nord Italia e della Svizzera per via del suo lavoro, faceva il camionista, ora è tornato in Palestina e ha aperto un ostello a Gerusalemme.

Non sono un esperto di Islam e di storia ma credo che chiunque possa essere d’accordo con me che quello appena scritto non si tratti di terrorismo o di fondamentalismo.

Che come in tutte le cose prima di parlare e sputare sentenze sia necessario quantomeno provare a conoscere e a sperimentare, per evitare facili e stupide generalizzazioni, che come unico obiettivo hanno quello di fomentare odio e quindi paura e dalla paura alimentare ignoranza che in un ciclo senza fine produrrà sempre più odio.

Credo che il dovere di ogni persona sia quello di accogliere e di aiutare ma soprattutto di comprendere e di conoscere ciò che è diverso da noi, ciò che ci separa, ciò che ci distingue e ciò che ci accomuna, cercando di vivere i confini, non solo territoriali ma soprattutto culturali, come luoghi di incontro e non di scontro; come zone di scambio e di ricchezze e non come muri da ergere.

In un mondo che va continuamente e velocemente nella direzione opposta alla mia mi sento di dire ad alta voce che dobbiamo imparare a vivere la diversità, perché è quello che il nostro tempo ci sta chiedendo, coglierne le sfumature più profonde, farle un po’ nostre, per diventare finalmente cittadini del mondo.

Solo in questo modo nessuno potrà più sentirsi “estraneo” o “scartato” e solo così si potrà scorgere all’orizzonte un po’ più di speranza.