La “Grande Passione” di Albrecht Dürer: le incisioni in mostra a Palazzo Reale a Milano

Nel periodo pasquale si può andare in chiesa, oppure si possono visitare città d’arte e pinacoteche, o ancora, si può fare l’una e l’altra cosa. A chi non si fosse arreso a uno tra i più evidenti crampi spirituali della nostra epoca – ci riferiamo all’allentamento di un antico legame tra il momento estetico e la dimensione religiosa –, consiglieremmo la mostra Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia, in programma fino al 24 giugno a Milano, a Palazzo Reale (orari, costi dei biglietti e altre informazioni all’indirizzo Internet www.mostradurer.it). L’esposizione, che comprende una selezione di opere pittoriche e incisorie di Albrecht Dürer (1471-1528), affiancate da quelle di altri grandi artisti del tempo, è promossa dal Comune di Milano e da 24 ORE Cultura; il curatore è l’olandese Bernard Aikema, Storia dell’arte moderna all’Università di Verona, in collaborazione con Andrew John Martin.

Professor Aikema, in un suo celebre libro del 1860, La civiltà del Rinascimento in Italia, Jacob Burckhardt sosteneva che l’arte rinascimentale avrebbe avuto un’ispirazione «antropocentrica»: rispetto all’arte medievale, volta a lodare Dio, essa avrebbe voluto laicamente celebrare la gloria terrena dell’uomo. Visitando la mostra milanese su Dürer, si è portati a dubitare di questa contrapposizione.

«Tra gli obiettivi della mostra vi è anche quello di correggere – o integrare – la tesi di Burckhardt per cui il Rinascimento, grazie alla riscoperta dei classici, avrebbe rivalutato l’individuo umano. Intendiamoci, questo è vero, fino a un certo punto. A mio avviso, però, la vera rivoluzione culturale avvenne alcuni decenni dopo la grande stagione quattrocentesca dell’umanesimo fiorentino: all’inizio del Cinquecento, alla scoperta dell’individualità umana si aggiunse un nuovo sguardo sul mondo, le cui dimensioni si andavano “dilatando”, anche per via delle recenti scoperte geografiche. Mentre un modello aristotelico-scolastico del sapere iniziava a declinare a favore della conoscenza sperimentale, andarono intensificandosi il confronto e la condivisione di idee tra gli intellettuali e gli artisti, a livello internazionale. Tutte queste novità si riassumono emblematicamente nella figura di Albrecht Dürer: erede ideale di un umanesimo antropocentrico e proteso al recupero dell’antico, egli si misura allo stesso tempo con culture diverse – soprattutto, con quella dell’Italia settentrionale – e si fa interprete di una nuova sensibilità religiosa».

 

Sul piano propriamente dottrinale, come la pensava Albrecht Dürer? Volle mettere la sua arte al servizio della Riforma luterana, come afferma qualcuno? Oppure, si sentiva più vicino all’umanismo cristiano di Erasmo da Rotterdam, raffigurato in una famosa incisione del 1526?  

«Nel catalogo della mostra figura anche un saggio di Thomas Schauerte, che prende in esame in modo molto equilibrato la questione dell’appartenenza confessionale di Dürer. Quando egli iniziò la sua carriera di pittore e incisore, l’intera Europa occidentale era sostanzialmente romano-cattolica. Però è anche vero che le forme della religiosità e della spiritualità – sulla scia della cosiddetta devotio moderna – stavano cambiando: a partire dalla Germania e dai Paesi Bassi si stava diffondendo, per esempio, il principio dell'”imitazione di Cristo”, motivo che poi ricorrerà frequentemente nella letteratura e nelle arti figurative. Le scene della Passione di Gesù, anche in Dürer, sono raffigurate con un grande senso di empatia, di vicinanza alle pene effettivamente patite dal Salvatore sofferente. A Norimberga – la città dove Dürer era nato e abitava – la riforma luterana si radicò assai presto: nei suoi scritti, egli espresse una grande ammirazione per le idee e, ancor più, per la persona di Lutero, che lo aveva aiutato “a superare grandi angosce”.  Che questa componente filoluterana abbia poi avuto delle ricadute esplicite a livello artistico, è molto meno scontato. Consideriamo il caso di un altro famoso pittore dell’epoca, Lucas Cranach il Vecchio…»

Che era personalmente amico di Lutero.

«Certo, tanto che lo ritrasse più volte; ebbene, Cranach realizzò pure un ampio ciclo di dipinti sacri su commissione di Alberto di Hohenzollern, lo stesso arcivescovo che a suo tempo aveva avviato la pratica della vendita delle indulgenze in Germania, suscitando appunto lo sdegno di Lutero. Tornando alle opere di Dürer: non si dovrebbe pretendere di rintracciare meccanicamente in esse le “prove” della sua adesione a una particolare concezione teologica. È vero, secondo alcuni una sua famosa xilografia del 1523, raffigurante l’Ultima Cena, potrebbe alludere all’interpretazione luterana del sacramento eucaristico; ma la cosa non è evidente».

 

 

Nella mostra Dürer e il Rinascimento sono esposte, tra l’altro, le stampe della Grande Passione, che precedette di alcuni anni l’inizio della Riforma di Lutero: una serie di immagini impressionanti, come quella dell’arresto di Gesù nel Getsemani, in cui egli è legato con corde e strattonato per la tunica.

«Dürer ha intuito le enormi potenzialità espressive della stampa anche per quanto attiene alla diffusione di idee religiose. In un periodo storico in cui – come già ho accennato – si pensava che il singolo credente dovesse meditare sulla vita di Cristo per ricavarne delle regole di condotta personale, Dürer risponde con la sua arte a tale esigenza, raffigurando le stazioni della Via Crucis. Queste immagini, poi rielaborate dallo stesso Dürer in un altro ciclo – quello della Piccola Passione -, avranno un enorme fortuna sia nel mondo cattolico sia in quello protestante, a conferma del loro valore interconfessionale, universalmente cristiano».

Anche nella mostra di Palazzo Reale, probabilmente, l’opera davanti alla quale i visitatori si soffermeranno di più è la fascinosissima Melencolia I, che da tempo è divenuta un’«icona pop»: la si trova stampata anche sulle magliette e sulle tazze del caffellatte. Però si discute sul reale significato di questa immagine: pare che alcuni trattati del tempo attribuissero una «forma primaria» di malinconia – diversa da quella dei filosofi e dei veggenti – agli artisti. Ma perché Dürer ricorse a una serie di «crittogrammi» per descrivere questo sentimento?

«Come la Gioconda leonardesca, la Melencolia I di Albrecht Dürer è un’opera che ha preso a vivere di vita propria, al di là del suo significato originario. La Melencolia rientra – con il Mostro marino e la Nemesi – in una serie di incisioni dal carattere decisamente enigmatico. Tutte queste opere, finora, sembrano aver resistito a qualsiasi tentativo di spiegazione definitiva. Io proporrei tuttavia di ribaltare la questione. Dürer intendeva realizzare delle immagini in qualche misura riconoscibili: sappiamo che la donna angelicata dell’incisione del 1514 è appunto la Malinconia, anche perché il titolo dell’opera si legge su un cartiglio retto dalle ali di un pipistrello, nella parte sinistra della scena; tuttavia, l’artista tedesco si prefiggeva di lasciare perplesso lo spettatore, aggiungendo, attorno alla figura principale, molti particolari dal significato sfuggente. La Melencolia I, a mio avviso, costituisce un esempio perfetto di conversation piece, di testo visivo che – grazie a calcolate ambiguità e volute incongruenze – si prestava ad alimentare discussioni erudite tra persone di alta cultura all’interno dei circoli umanistici del tempo; e l’immagine dureriana, a distanza di cinque secoli, sembra aver mantenuto questa sua capacità».