A proposito di preti che cambiano spesso parrocchia e delle fatiche del monastero

Ho dato un’occhiata, io laico, alla guida della nostra diocesi. Mi ha colpito un particolare. Alcuni preti faticano a stare nella stessa parrocchia più di due-tre anni. Mi è stato detto che, per molte comunità monastiche è fondamentale la “stabilitas loci”, cioè la capacità di restare nello stesso monastero per sempre o, quanto meno, per molto tempo. Chi vuole cambiare spesso si sospetta che sia ammalato di accidia, una delle più insidiose malattie dell’anima. Ma questo vale solo per i monaci o anche per i preti?

No, non vale solo per i preti, i monaci o le monache! La “stabilitas loci” è innanzitutto una condizione dell’anima più che una questione geografica! Essa, infatti, sottintende la disponibilità ad ancorare la propria esistenza in una “realtà” stabile al punto da poter affrontare intemperie esistenziali di ogni genere, senza venire meno alle proprie opzioni fondamentali e, ancor di più, senza fuggire in cerca di situazioni “paradisiache”.
Il cristiano, e a maggior ragione il consacrato, radica la propria “stabilitas” nella relazione personale ed intima con il Signore Gesù, roccia resistente ad ogni vento contrario, per affrontare con Lui ed in Lui le inevitabili prove della vita.
La scelta di rimanere per tutta la vita in un luogo, tipica della via monastica, rende visibile quella stabilità interiore che abita il cuore del consacrato e che lo rende “pellegrino e forestiero in questo mondo” secondo il Vangelo.

Non si sta meglio cambiando spesso

La sfida è grande ed attuale! La fedeltà alla propria storia e alle proprie scelte, proprio là dove ciascuno vive, è messa in discussione dall’odierna mentalità che tende a vivere tutto superficialmente per “scansare” ogni genere di “fatica” relazionale, affettiva e ogni compromesso. Ci si illude, infatti, che rimanendo “alla superficie” delle situazioni, si possano evitare i venti impetuosi e tumultuosi della stanchezza, del non senso, dell’abitudine, ecc, e sentirsi liberi da legami che, al contrario, potrebbero opprimere: “cambiando” frequentemente comunità, marito o moglie, parrocchia, ecc., infatti, possiamo “stare meglio”!
Nulla di più falso! Il contesto dove ciascuno abita può aiutare o meno a vivere con serenità la propria vita, ma molto dipende dal grado di maturità di ogni persona e dalla sua solidità interiore, stabilmente ancorata nel Signore Gesù.
Non so dirti se tutto questo ha il nome di accidia, so soltanto, per esperienza, che la durezza del vivere appartiene all’esperienza umana e che il cristiano sceglie di non fuggire dinanzi alle difficoltà e alle incomprensioni, ma di rimanerci dentro, accogliendole e trasfigurandole nel nome di Cristo. Così esse potranno trasformasi in vere e proprie opportunità di crescita in umanità.

La stabilità del monastero

La vita in monastero, forse più di altri stili di vita, non permette di “disertare” il quotidiano con le sue gioie e le sue fatiche: la sorella difficile, la preghiera arida, il lavoro senza i riconoscimenti desiderati, la malattia, ecc. sono il terreno da “dissodare” quotidianamente con l’aratro della grazia e della perseveranza. La relazione profonda con il Signore Gesù, a volte sofferta, e il radicamento personale nei valori evangelici sono il terreno nel quale affondare le radici della nostra vita per non soccombere alla stanchezza e crescere rigogliosi e forti come un albero.
La “stabilitas” è, perciò, una grande grazia: essa, infatti, permette di gustare gioie grandi e profonde; grazie ad essa le relazioni fraterne, spesso causa di crisi e di ripensamenti, purificate dal desiderio vicendevole di crescere nella comunione e dalla costanza, diventano ricchezza impagabile per la durata di tutta l’esistenza.
Grazie alla virtù della “stabilitas” ciò che un tempo poteva sembrare amaro, si trasforma, lentamente, in dolcezza nell’anima e nel corpo.