I Mondiali in Russia senza l’Italia: per una volta ci tocca guardarli da spettatori. Una tortura o un’occasione?

Chiariamo subito una cosa: non vedere la nostra Italia in Russia ai Mondiali di calcio è una ferita che ancora sanguina, brucia, fa male, infastidisce. Anche quando si rimarginerà, quella ferita lascerà una cicatrice impressa per sempre, di quelle che osservi quando ti guardi allo specchio, ricordando come hai fatto a procurartela e di quelle che ti vedono anche gli altri da fuori e tu sei costretto a raccontargli per filo e per segno come è successo. E soffri, ancora.

«È solo un gioco, non saranno certo questi i problemi», si sono affrettati a dire in molti, senza tuttavia considerare che in Italia il calcio è una tradizione, un uso, un costume non da poco, leggero, pur sempre un gioco, ma non è solo un gioco. Il calcio e in particolare i Mondiali di calcio sono un momento di appassionata leggerezza che consente di ritrovarsi, di alleggerire le fatiche quotidiane, di ricordare un’estate per “quel” mondiale, di rivedere amici e parenti, di fissare una tappa della propria vita che per qualcuno scorre a blocchi di quattro anni. Ecco perché non poter vivere un Mondiale da protagonisti è una brutta botta, per calciofili e non.

Chiusa questa parentesi e sforzandosi di essere stoici, ragionevoli, saggi e riflessivi cercando il lato positivo di questa strana estate senza Mondiali, qualche spunto questa “non partecipazione” lo offre. Cercando di non cadere in facili moralismi o in banali parallelismi con la situazione del nostro Paese, la sconfitta della Nazionale ci obbliga per una volta a non essere protagonisti, ma spettatori. In tempi dominati dal narcisismo, dal mito del selfie, dall’egocentrismo e dall’uno contro tutti favorito dai social e dagli smartphone, mettersi davanti ad una televisione da spettatori può essere utile. Può farci capire che qualche volta osservare e imparare dagli altri o dai propri errori è doveroso per proseguire il proprio cammino in modo migliore. Essere sconfitti e quindi essere su un gradino più basso obbliga l’osservatore a fare di tutto per risalire e guardare ciò che accade fuori da un punto di vista uguale, se non addirittura superiore in caso di meriti particolari.

Essere spettatori obbliga a guardare altrove invece che specchiarsi nei propri pregi o presunti tali. L’Italia è un po’ così: le piace specchiarsi nelle proprie attrazioni, ad esempio turistiche, ma senza metterle davvero a disposizione degli altri perdendo una buona occasione. Nel calcio è la stessa cosa: convinti delle proprie idee, sprezzanti dei consigli altrui, memori delle vittorie passate ci ritroviamo ora a guardare perché, mentre gli altri si indaffaravano a guardarsi in giro e ad imparare, noi “pettinavamo” le nostre “bambole di porcellana” (da leggersi: allenatori poco preparati, dirigenti poco all’altezza e giocatori sopravvalutati).

Ora guardiamo, sì ma chi guardiamo? Parte la caccia alla propria squadra favorita. Brasile, Spagna e Argentina sono le favorite per la vittoria finale e pure le più gettonate tra i tifosi “imparziali”. Sarà per la loro tradizione, sarà per i talenti che possono vantare in squadra oppure per quel modo di vivere vicino al nostro, sta di fatto che è così.

Poi ci sono Francia e Germania per le quali solitamente si fa il tifo contro: questione di vecchie ruggini, di “cuginanze” poco gradite, di sfide memorabili sul campo (e non), di goliardate o di tradizioni da portare avanti “perché è così”. Di certo, la Germania avrà tirato un sospiro di sollievo volando verso la Russia sapendo che la sua “bestia nera” – la banda degli Spaghetti e Mandolino – era relegata sulle spiagge del mondo invece che in ritiro per giocare la Coppa del Mondo.

Chiuso il lotto delle superfavorite è caccia alla sorpresa, un “must” ogni volta che iniziano i Mondiali perché da qui la favola di qualche calciatore o di qualche Nazione nasce sempre (il Senegal nel 2002 è uno degli esempi recenti più romantici).

Il calcio sa anche essere specchio dei cambiamenti sociali in tutto il mondo ed allora tra le formazioni migliori ci sono Nazionali fino a poco tempo fa insospettabili: Belgio, Polonia, Croazia, Islanda, Serbia, Svizzera. Figli di immigrati, naturalizzati, giovani ai quali è stata data una possibilità: solitamente i talenti di queste squadre hanno storie come queste alle spalle.

E le storie sono quelle che rendono un Mondiale di calcio unico. Le storie di popoli che si incontrano e che si sfidano per un gioco chiamato calcio capace spesso di portare pace nella vita reale di tutti i giorni. In Russia arriveranno i Panamensi, gli Iraniani, i Sauditi, i Coreani, i Senegalesi, i Marocchini, gli Egiziani. E non arriveranno solo giocatori: arriveranno tifosi, famigliari, amici che grazie al calcio possono uscire dal loro Paese, spesso povero, per la prima volta in vita loro il più delle volte. E noi faremo il tifo per loro, così deboli eppure così forti, questa volta guardandoli con invidia invece che con una sorta di pietà, questa volta cercando di carpire i loro segreti per non ritrovarci tra quattro anni a dover sederci ancora comodi sul divano, senza pizza e senza birra perché tanto abbiamo cenato tranquilli prima delle partite serali senza l’adrenalina dell’inno di Mameli che sta per partire.

Abbiamo il dovere di farlo, soprattutto per gli adolescenti che hanno il diritto di godersi un Mondiale con l’ingenuità di una fanciullezza che tramonta e la prima maturità di un’età adulta che sta per sorgere. Esagerati? Forse. Ma provate a far vedere a vostro padre la finale dei Mondiali di Spagna 1982 dando le spalle alla televisione e guardandolo negli occhi: vedrete i lucciconi scendere sulle guance al primo gol di “Pablito” Rossi, la pelle d’oca alzarsi sulla pelle al secondo gol di Tardelli, un sorriso malinconico accendersi sul terzo gol di Altobelli e poi, mentre Zoff alza la Coppa del Mondo, inizierete a sentirlo parlare da solo ricordando e ricordandosi dove era in quegli esatti 90 minuti. Sicuri che sia solo un gioco?