Ottant’anni fa le leggi razziali contro gli ebrei. “Memoria vi concede breve sonno. Ora destatevi”

Nedo Fiano, nato nel 1925

Ottant’anni fa, in un silenzio quasi generale, nel nostro Paese furono messi in atto una serie di provvedimenti che avevano l’obiettivo dichiarato di limitare fortemente i diritti e la dignità della minoranza ebraica, che in quegli anni contava poco più di quarantamila persone.

Il primo atto pubblico con cui si espresse la politica razziale e antisemita del regime fascista fu la pubblicazione, avvenuta il 14 luglio di quello stesso anno, del “Manifesto della razza”, nel quale, al punto 9, si asseriva che “gli ebrei non sono di razza italiana”. Seguirono leggi volte ad escludere progressivamente gli ebrei dalla vita sociale del paese, a cominciare dall’espulsione degli insegnanti e degli alunni dalle scuole di ogni ordine e grado. Non solo: a partire da quel momento, gli ebrei italiani non potevano più lavorare nelle amministrazioni pubbliche, far parte dell’esercito, gestire alcune attività economiche e commerciali che il fascismo giudicava “strategiche” per la nazione.

Di anno in anno le misure contro gli ebrei diventarono sempre più dure, fino al 1943, quando l’occupazione tedesca dell’Italia del centro-nord diventò una tragedia anche per gli ebrei italiani, molti dei quali finirono nei campi di concentramento e di sterminio. Una ferita nel cuore di un Paese cattolico che interroga ancora oggi.

Anni fa, mi è capitato di parlarne con Nedo Fiano, allora uno dei più lucidi testimoni dell’inferno di Auschwitz. Faceva impressione ascoltarlo, quando lo si ascoltava, con quel suo discorrere che alternava un’intensa narrazione con grida disumane in tedesco, quando ti faceva vedere la casacca a righe bianche e blu che indossò per quasi un anno ad Auschwitz o il braccio sinistro, sporcato per sempre dal tatuaggio del campo con il numero A5405. Nel campo di sterminio polacco, Nedo finì con tutta la sua famiglia che venne sterminata per intero. Lui solo sopravvisse. Mi raccontava spesso che a diciotto anni rimase orfano e che quell’esperienza così devastante fece di lui un uomo diverso, un testimone per tutta la vita. Quando lo accompagnava negli incontri, mi tornava sempre alla mente l’invito di Salvatore Quasimodo: “Memoria vi concede breve sonno: ora destatevi”.

Fino alla promulgazione delle leggi razziali tu vivevi felicemente a Firenze. Come era la vita della comunità ebraica fiorentina?

La comunità ebraica contava circa 1500 persone. Ci sentivamo più italiani degli italiani, la maggior parte di noi era ben integrata, seppur con una nostra specificità. Quella fiorentina era una comunità composita: commercianti, insegnanti, industriali, tutte le categorie della media borghesia. Mia mamma aveva una deliziosa pensioncina, con sette camere da letto. Una pensione dove venivano dirigenti e turisti. Facevamo una vita normalissima. Non c’era razzismo, ogni tanto ci scappava la scazzottata, l’ebreaccio, ma insomma era normale. A Firenze a quel tempo i ragazzi ci chiamavamo Cucchina Lanai, cercando di riprodurre la parola ebraica adonai, che significa Dio. Scaramucce, niente di più.

Nel 1938 con la promulgazione e l’entrata in vigore delle leggi razziali la storia, per la comunità ebraica italiana, prende una piega tragica. A te cosa accadde?

Venni cacciato da scuola perché ebreo. Ero un ragazzo, molto legato alla classe, ai mie compagni. A 13 anni mi sembrò di essere davanti ad un baratro. Mi sarebbe bastata una stretta di mano, una consolazione: “Nedo non ti preoccupare giocheremo ancora insieme, noi siamo gli amici di sempre, non ti preoccupare non piangere“. Questo non è avvenuto. Mia madre – che nel frattempo a causa delle leggi razziali aveva dovuto chiudere la pensione – mi spiegò che la vita era fatta anche di queste cose. Da lì a poco, la comunità ebraica si organizzò e venne istituita una piccolissima scuola, con classi di cinque, sei ragazzi al massimo. Da sbarazzino e monello come ero, diventai un secchione. La metà dei nostri insegnanti erano professori universitari cacciati a loro volta a causa delle leggi razziali. Da quella scuola improvvisata sono venuti fuori personaggi di altissimo livello. Studiavamo come pazzi, con insegnanti straordinari. Ogni anno avevamo gli esami perché la nostra scuola non era riconosciuta. Il primo anno il preside della scuola dove eravamo andati a fare gli esami di fine anno aveva messo una lavagna per gli alunni ebrei e una per gli ariani. Noi ebrei avevamo tutti gli otto decimi, il massimo della media. L’anno dopo, quando siamo tornati a fare l’esame per la seconda volta, il preside ci mise tutti insieme, per non far vedere che eravamo migliori degli ariani. Noi avevamo capito la motivazione della scuola, perché si doveva studiare.

In che periodo fosti deportato?

Con i miei genitori arrivai a Birkenau, il secondo dei tre campi di Auschwitz, il 23 maggio del 1944. Appena scesi dal convoglio dovemmo passare una “selezione”: da una parte la camera gas e il forno crematorio, dall’altra il campo. Mamma fu mandata subito a morire al Crematorio 2. Io e papà riuscimmo a passare indenni. Papà era un uomo splendido, sembrava un ambasciatore. Aveva 54 anni, ma dichiarò di averne dieci di meno per potersi salvare. Entrammo nella quarantena, che era comunque un luogo di morte: durava tre settimane, le razioni erano dimezzate rispetto al Campo e quando i prigionieri uscivano erano ridotti malissimo. Mi ricordo che entrammo in una baracca al momento della distribuzione della zuppa. Al campo non c’erano né forchette, né coltelli, né cucchiai. Dovevamo mangiare mettendo la testa dentro nella ciotola. Come animali.

Cosa accadde dopo la quarantena?

Dentro la baracca entrò poco dopo un sergente maggiore delle SS che disse: “achtung”. Tutti scattarono in piedi, era un ordine. Incominciò a guardarci. Io so cos’è uno sguardo nazista, uno sguardo vitreo, freddo. I nazisti ci guardavano come fossimo stati degli scarafaggi. E come per gli scarafaggi nessuno prova ritegno a schiacciarli, così era per noi. Il nazista disse che aveva bisogno di qualche interprete. “Chi parla tedesco?”chiese. Ero impietrito, immobile. E proprio quando pensavo che questo esame fosse finito, sentii una spinta sulla schiena, una mano che mi mandava avanti a offrire la mia disponibilità d’interprete. Mi sono trovato davanti alla SS, che continuava a fissarmi con lo stesso sguardo. A un certo punto mi chiese “dove sei nato?”. Io risposi “in Italia”, senza guardarlo, con gli occhi verso un punto infinito, come era prescritto. “Sì ma dove?”, insistette lui. “A Firenze”. Non finii neppure di pronunciare Florenz, che mi disse: “caro amico, la tua città è bellissima”. Dopo un monologo di due minuti mi ha selezionato per il corpo interpreti. Eravamo dei privilegiati, e se io sono qui a raccontare tutto questo forse è anche dovuto a quella scelta. Gli interpreti lavoravano sulla banchina d’arrivo dove arrivano i convogli di ebrei da tutta Europa.

Per quale ragione, tu conoscevi il tedesco?

Fu a causa di mio nonno. È a lui che devo la mia sopravvivenza. Mio nonno paterno parlava tre lingue, tra cui il tedesco. Era cieco, un gran affabulatore. Mi parlava di Salgari e di avventure in terre sconosciute. Ero un bambino di otto anni, frequentavo la terza elementare. Un giorno mi disse: “Nedo tu devi imparare il tedesco, ricordati che le lingue rappresentano le chiavi per aprire le vie del mondo”. Quegli anni di insegnamento mi hanno aperto la via alla vita.

Avevate idea di cosa vi poteva succedere ad Auschwitz e nei campi di sterminio?

I convogli ferroviari che portavano gli ebrei allo sterminio, si chiamavano “trasporti notte e nebbia”. Che cosa potevamo immaginare? Niente. Sulla banchina del campo abbiamo poi visto arrivare per mesi ebrei da ogni parte d’Europa: greci, polacchi, ungheresi, italiani. Io ero sulla banchina quando, con un convoglio, è arrivata anche mia nonna. Era sorda, si guardava in giro senza riuscire a capire dove fosse finita. L’ho riconosciuta subito e sono andato ad abbracciarla – cosa peraltro rischiosissima – e sono svenuto dall’emozione. I miei compagni, allora, mi hanno preso e mi hanno messo da una parte, coprendomi con delle foglie. Mi sono ripreso qualche minuto dopo; mia nonna era già finita nella camera a gas.

Ti sarai chiesto molte volte la ragione di quanto è accaduto al popolo ebraico. C’è chi ha detto che dopo Auschwitz è cambiato persino il concetto e l’idea di Dio.

È vero, restano molti dubbi e tante domande. Anche oggi, dopo tanti anni dalla liberazione. La domanda, in particolare, su come sia stato possibile a un Dio buono, onnipotente, onnipresente, lasciare ammazzare sei milioni di persone. Mio nipote aveva solo 18 mesi, che colpe aveva? Io me la sono spiegata in questo modo. Per me il grande miracolo su questa terra è la nascita. L’uomo cresce con un’intelligenza, una coscienza. Dio è all’origine della nascita, poi l’uomo se la vede da sé: non possiamo credere che Dio intervenga nelle cose dell’uomo, perché allora dovremmo ammettere che su alcune interviene e su altre no. L’uomo è responsabile delle sue scelte, ha il libero arbitrio, la capacità e il potere di fare il bene e il male.

Sul banco degli imputati, dunque, metti l’uomo, non Dio.

Certo. Se penso che i tremilacinquecento uomini, che costituivano la guarnigione di Auschwitz, spedivano a casa lettere affettuose alle mogli, mandavano ai propri figli fotografie, scrivevano parole buone, mi rendo conto che questa dualità tra bene e male è sempre in agguato, chiama alla responsabilità gli  uomini “normali”. L’uomo è il responsabile, non Iddio. L’umanità è responsabile della Shoah, come dello stermino dei Curdi e degli Armeni. L’uomo è responsabile. Io ho lavorato sulla banchina della stazione di arrivo di Birkenau fino all’ottobre del 1944. Guardavo Josef Mengele, simile ad un attore americano, vestito sempre elegante, come ad un galà, che avvicinava i bambini dava loro carezze e caramelle, quando vedeva due gemellini se li portava via per i suoi esperimenti. Era un uomo. Noi eravamo dei candidati alla morte e lui sceglieva.

Tutto è partito dalle leggi razziali…

Vedi, la gente della mia generazione ha un senso di colpa perché la nostra tragedia non sarebbe accaduta se ci fosse stata la solidarietà. La mancanza di questa ha alimentato la strage. Per capire, bisogna riflettere sul 1938 e sulle leggi razziali. Il Paese di Dante, di Michelangelo e di Leonardo, ha prodotto anche gli scienziati che hanno avallato la menzogna della razza, affermando che esisteva una razza pura, quella ariana, e gli ebrei, non essendo ariani, era giusto che venissero estromessi dalla vita civile, dalla società. Quello era il tempo in cui il signor Levi, direttore di banca, veniva cacciato e i colleghi, anziché indignarsi, si fregavano le mani perché così avrebbero occupato il suo posto. Così successe nelle università, nelle scuole, nelle aziende. In Italia non c’è stato un movimento di opposizione alle leggi razziali, come ad esempio in Olanda dove hanno fatto anche degli scioperi sotto l’occupazione nazista.