Quel che resta del Sessantotto. Leggere le ribellioni di allora per capire le contraddizioni di oggi

È probabile che i diciotto-ventenni di oggi sappiano poco o nulla, di quanto a suo tempo fu rubricato sotto la voce «Sessantotto». Quelli tra loro che sono soliti sfogliare i giornali vi avranno magari trovato, nelle scorse settimane, la riproduzione di una famosa foto dell’epoca: a Parigi la modella Caroline de Bendern, seduta sulle spalle di un amico, sventola la bandiera del Fronte di Liberazione vietnamita, guadagnandosi così l’appellativo di «Marianna del Maggio francese»; o magari, in televisione, avranno visto il filmato degli scontri di Valle Giulia, a Roma, con i poliziotti che erano stati mandati a presidiare la facoltà di Architettura presi a sassate dai manifestanti. Avrebbe come primi destinatari ideali proprio i giovani Che fine ha fatto il ’68? Fu vera gloria? (Guerini e Associati, pp. 224, 21,50 euro, ebook a 14,99 euro). Nel volume, oltre a firmarne l’introduzione, Giovanni Cominelli – saggista, esperto di sistemi scolastici ed editorialista del Santalessandro – ha raccolto ventitré testimonianze di «ragazzi del ’68», in alcuni casi noti anche per la loro successiva militanza politica o sindacale (in queste pagine, per esempio, prendono la parola Sergio Cofferati e Nando Della Chiesa, ma pure i bergamaschi Maurizio Carrara e Gian Gabriele Vertova). Il libro sarà presentato martedì 19 giugno 2018 in un incontro alle 18 alla Fondazione Serughetti La Porta di Bergamo.
«All’origine del libro – spiega Cominelli – è soprattutto una motivazione di ordine esistenziale. Il più anziano dei ventitré testimoni è del 1939, la più giovane è nata nel 1958: lentamente, anche per i membri di questa generazione si avvicina “il momento di sciogliere le vele”, come scrive san Paolo (alcuni, ahimè, l’hanno già fatto). Il desiderio condiviso era dunque quello di passare ad altri un “testimone”, pur non essendo affatto certi che ci sia qualcuno interessato a raccoglierlo. Abbiamo voluto raccontare a più voci, da posizioni anche molto distanti, che cosa è stato per noi il Sessantotto, non certo perché i più giovani siano invogliati a “rifarlo” – cosa che non avrebbe alcun senso -, semmai perché riflettere su quanto è accaduto mezzo secolo fa può farci meglio comprendere una serie di problemi e contraddizioni che gravano ancor oggi sulla vita pubblica in Italia».
Nell’introduzione a Che fine ha fatto il ’68?, lei nomina tre grandi componenti o filoni culturali confluiti nel movimento della contestazione: l’«americanismo», il cattolicesimo conciliare e il marxismo.
«A mio modo di vedere, in una prima fase ebbe un grande ruolo uno stile di vita e di pensiero che chiamerei, appunto, “americanismo”: rientravano in questo paradigma l’affermazione della soggettività individuale, la contestazione di un vecchio ordine di valori, il consumismo – ma anche la critica del medesimo – e, più in generale, tutte quelle novità che già nel 1958 John Kenneth Galbraith aveva descritto nel suo libro The Affluent Society, poi tradotto in italiano con il titolo La società opulenta. Da questo punto di vista, gli antecedenti più o meno remoti del Sessantotto in Italia potrebbero essere rintracciati nelle proteste di piazza del 1960 contro il governo Tambroni, sostenuto dalle destre, ma anche in una nuova sensibilità veicolata dalle canzonette e dai film, così come nelle nuove libertà individuali legate alla pillola anticoncezionale e alla diffusione delle automobili utilitarie, a partire dalla Fiat 600. Anche per gli immigrati giunti dal Meridione nelle grandi città del Nord Italia – un fenomeno che ha coinvolto milioni di persone – si aprivano nuove opportunità. Non va poi dimenticata, tra gli elementi che aprirono la strada al Sessantotto, la riforma della scuola media unica, nel 1962: nel giro di pochi anni poterono entrare alle superiori e quindi all’università decine di migliaia di ragazzi che precedentemente, ultimato il cosiddetto “avviamento professionale”, avrebbero invece abbandonato gli studi».
In un primo tempo, dunque, il movimento del Sessantotto aveva un’impronta «soggettivistica»?
«Sì, secondo me fu questa a prevalere dal 1967 al 1969. Contemporaneamente, però, era entrato in fermento il mondo cattolico (che, occorre ricordarlo, costituiva allora una componente maggioritaria nel Paese). Tra il 1962 e il 1965, il Concilio Vaticano II aveva riaperto la Chiesa al mondo moderno: per un po’ di tempo, anzi, l’esperienza ecclesiale sembrò perfettamente in sintonia con le tendenze emergenti in quell’epoca, dalla decolonizzazione al movimento pacifista. Un episodio emblematico, nel 1966, fu la pubblicazione di un famoso libro di padre Giulio Girardi, Marxismo e cristianesimo, autorevolmente prefato dall’allora arcivescovo di Vienna, cardinale Franziskus König».
Arriviamo così all’entrata in scena del marxismo, nelle sue molteplici varianti.
«Da componente tutto sommato minoritaria, quale era nel 1968, andò diffondendosi quando si trattò di cercare uno schema interpretativo della resistenza della classe dirigente alle richieste di cambiamento; soprattutto l’atteggiamento dei democristiani “dorotei” era visto come un muro di gomma, su cui tutto rimbalzava senza produrre effetti. Poi, dopo il 12 dicembre 1969 – con la strage di piazza Fontana e l’avvio della “strategia della tensione” -, sembrò che le sole categorie in grado di spiegare tali eventi fossero quelle marxiste. Bisogna però specificare che a esercitare un forte appeal sul movimento della contestazione non era il marxismo sovietico né quello togliattiano: ci si rivolgeva semmai ai testi critici del giovane Marx o al maoismo, immaginando che la “rivoluzione culturale” iniziata in Cina nel 1966 avesse un carattere genuinamente libertario; solo in seguito si seppe che aveva comportato milioni di morti (io me lo sentii raccontare direttamente dai testimoni, quando mi recai in quel Paese)».
Uno dei «maestri» del Sessantotto fu Herbert Marcuse, che associava la critica al capitalismo all’istanza della liberazione della «libido» dai condizionamenti sociali.
«Questo tentativo di coniugare marxismo e psicoanalisi era decisamente bizzarro, perché Marx e Freud, ai tempi loro, avevano guardato in direzioni diversissime. Probabilmente, l’ibridazione tra la rivendicazione dei diritti dell’eros e la contestazione sociale si è compiuta pienamente più tardi, con il movimento del ’77».
Nel ’77, appunto, non prevalsero dei toni molto più cupi, decisamente distruttivi e persino autodistruttivi, rispetto al Sessantotto? Nell’arco di pochi anni, anche in Italia si era grandemente diffuso il consumo di eroina.
«Nel 1977, sostanzialmente, si dovette prendere atto di una sconfitta politica. Dal punto di vista sociale e antropologico, il Sessantotto era stato effetto e insieme concausa di un grande cambiamento avvenuto in Italia; sotto il profilo politico-istituzionale, però, la contestazione non era approdata a nulla. Alle elezioni del 1976, Lotta continua e altri gruppi della sinistra extraparlamentare si erano presentate sotto la sigla di Democrazia Proletaria, che però prese meno di 600mila voti, l’1,5%. Intanto, era venuto avanti il ”partito armato” – quello delle Brigate Rosse fin dal 1972 e quello di Prima Linea dal 1977. Le BR pensavano che in Italia stesse tornando il fascismo, mentre PL era convinta che il comunismo nel nostro Paese fosse ormai “maturo”. Pertanto occorreva usare la violenza armata o per bloccare il fascismo o, a mo’ di forcipe, per accelerare l’avvento del comunismo. Gli eventi hanno seguito una china ben diversa, come sappiamo».
Che cosa ci può dire lo studio del Sessantotto riguardo alla situazione attuale della politica in Italia?
«Allora non si arrivò, nel nostro Paese, a realizzare il progetto di una vera democrazia liberale, e di questa mancanza paghiamo il prezzo ancor oggi. Nel Sessantotto si affermò una forma di democrazia diretta, assembleare, con tutte le ambiguità e le possibili degenerazioni di questo modello: per così dire, dal “gruppo fusionale” che si raduna a Versailles nella Sala della Pallacorda il 20 giugno 1789 può venir fuori la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma può derivare anche il Terrore. Oggi il giacobinismo, aggiornato in chiave digitale e telematica, è alla base del Movimento 5 Stelle: si dice che se la politica fa schifo è perché i politici sono corrotti; dunque, basterebbe cambiare gli uomini. In realtà, la fede nell’avvento degli “uomini nuovi” assomiglia molto a una pia illusione; bisognerebbe riconoscere, invece, che in Italia scontiamo un deficit strutturale, nel senso che mancano delle istituzioni in cui tutti possiamo riconoscerci. Detto in breve: il Sessantotto ha segnato l’inizio della crisi di un vecchio sistema dei partiti, ma nulla, finora, ha saputo davvero riempire il vuoto che ne è seguito».