Ragazzi thailandesi salvati – il giudizio di chi non sa, la dignità del silenzio

“Non siamo sicuri se sia un miracolo, scienza o cosa. Tutti i tredici Wild Boars sono ora fuori dalla caverna”. 

Il mondo intero ha tirato un sospiro di sollievo quando, nel primo pomeriggio (ora italiana) di martedì 10 luglio, è stata diramata la notizia: i dodici ragazzi della squadra di calcio thailandese e il loro allenatore sono stati tratti in salvo dalla grotta di Tham Luang, nel nord della Thailandia.

Dopo 18 giorni di sofferenze – tra la scomparsa della squadra nella caverna, le ricerche, il miracoloso ritrovamento e le operazioni di evacuazione – tutto si è concluso nel migliore dei modi, a dispetto di tutte le condizioni avverse, della corsa contro il tempo e del rischio monsoni che incombeva sul capo dei soccorritori. Grazie anche al sacrificio di Saman Gunan (unica vittima in questa vicenda pregna di umano eroismo e altrettanta umana fragilità), al dispiegamento di forze di soccorso da tutto il paese e da tutto il mondo e alla presenza di spirito e di sacrifico del giovane allenatore Ekapol Chanthawong, i dodici ragazzini della squadra dei “Wild Boars” potranno presto riabbracciare le proprie famiglie.

 

E allora forse, ora che tutto si è risolto, vale la pena provare ad osservare la situazione nel suo insieme. Perché se da un lato la vicenda ha messo in luce una capacità umana di comprensione, di resilienza e di cooperazione fuori dal comune, dall’altro ci costringe a confrontarci con un fenomeno che proprio in momenti del genere appare ancora più grottesco, più gretto, più cattivo: quello dei leoni da tastiera. Mentre il mondo stava con il fiato sospeso per la sorte dei ragazzi e dell’allenatore, mentre i più esperti soccorritori del mondo cercavano di trovare una soluzione ad una situazione apparentemente disperata, mentre i genitori dei ragazzini mandavano il loro supporto morale e spirituale ai figli e al ragazzo, sui social network si combatteva la battaglia del cattivismo gratuito, del giudizio supponente, dell’ignoranza spacciata per verità assoluta.

Con una vittima già designata: l’allenatore Ekapol Chanthawong. Reo, a detta dei giudici della rete, di aver messo in pericolo i ragazzini e allora del tutto meritevole degli appellativi e degli insulti di chi – dal comodo divano di casa – si riteneva in diritto di dispensarne a piene mani. Senza cognizione di causa e soprattutto senza il minimo di empatia. Gente che prima della vicenda probabilmente non sapeva collocare la Thailandia sulla cartina geografica improvvisamente si riscopre esperta di speleologia, di meteorologia tropicale, di soccorso subacqueo. Gente che non ha idea di come siano andate le cose si sente in diritto di salire sul pulpito e dire che l’allenatore meriterebbe di essere linciato, picchiato, imprigionato, frustato.

Ora, va da sé che le eventuali responsabilità penali del singolo andranno stabilite nelle sedi opportune: saranno le autorità thailandesi a stabilirlo, così come saranno i genitori dei ragazzi a valutare se citare in giudizio Ekapol Chanthawong o meno. Ma – appunto – non è una cosa che riguarda nessuno di noi. Nessuno di noi era lì, e se Ekapol Chanthawong dovrà pagare sarà compito di altri assicurarsi che lo faccia.

Ci sono vicende che richiedono soltanto la dignità del silenzio, il rispetto, la preghiera, la consapevolezza di non poter capire e quindi di non poter pontificare. Questa è stata una di quelle vicende. Ed è preoccupante il fatto che sempre più spesso, davanti agli accadimenti del mondo, non si sappia più rispettare l’invalicabile confine morale del rispetto, dell’empatia, dell’umanità.

 

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