Rapporto Save The Children, povertà educativa e resilienza in Italia. Intervista allo psicoterapeuta Pellai

“Il futuro è nelle mani dei bambini. Che ogni bambino affamato sia nutrito, ogni bambino malato sia curato, a ogni orfano, bambino di strada o ai margini della società sia data protezione e supporto”.

Sono queste le parole di Eglantyne Jebb, la quale, colpita dalle terribili condizioni di vita dei minori in Europa dopo la I Guerra Mondiale, nel 1919 fondò Save the Children, una Organizzazione Non Governativa (ONG) tra le più grandi del mondo.
Se è vero che Eglantyne Jebb fu in grado di anticipare il concetto, rivoluzionario per l’epoca, che anche i bambini fossero titolari di diritti, ci domandiamo cosa penserebbe l’attivista britannica dei dati sconfortanti emersi dal nuovo rapporto di Save the Children “Nuotare contro corrente. Povertà educativa e resilienza in Italia”.

Più che un rapporto, un allarme che parla chiaro: un milione e 300 mila bambini e ragazzi, il 12,5% del totale, più di 1 su 10, vivono in povertà assoluta, secondo il dato Istat riferito al 2016. Oltre la metà non legge un libro, quasi 1 su 3 non usa Internet e più del 40% non fa sport. Come se ciò non fosse già abbastanza, dal rapporto risulta che l’Italia è un Paese dove i minori non riescono a emanciparsi dalle condizioni disagiate delle loro famiglie, non hanno opportunità educative e spazi per svolgere attività sportive, artistiche e culturali, sebbene siano moltissimi i luoghi abbandonati e inutilizzati in tutto lo Stivale.

Il rapporto, per questo motivo, accompagna il lancio della campagna “Illuminiamo il Futuro” (www.illuminiamoilfuturo.it) e l’avvio di una petizione on line per chiedere il recupero di spazi pubblici in stato di abbandono da destinare ad attività extrascolastiche gratuite per bambini e adolescenti.

Campania, Sicilia, Calabria, Puglia e Molise occupano i primi cinque posti della classifica della povertà educativa in Italia mentre Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna sono le aree che offrono maggiori opportunità educative per i minori.

Per commentare i dati contenuti nel rapporto, abbiamo intervistato Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, ricercatore presso il dipartimento di Scienze Bio-Mediche dell’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di prevenzione in età evolutiva.

 

Prof Pellai, dal Suo osservatorio privilegiato ritiene che l’Italia sia un Paese vietato ai minori?

«Credo che l’Italia negli ultimi venti/trent’anni abbia investito in altro, quindi le città, ma non solo le città, basta guardare i nostri cortili, i nostri quartieri, le nostre comunità, sono diventate spazi sempre più in mano al mercato, alle esigenze delle automobili e degli automobilisti e sempre meno invece a misura di bambino. Effettivamente crescere un figlio nella nostra nazione, soprattutto in alcune nostre grandi città è molto faticoso».

 

Quando parliamo di “povertà educativa” a che cosa ci riferiamo?

«Ci riferiamo da una parte al fatto che famiglie fragili non possono mettere in gioco competenze educative nella relazione con i figli, perché sono fortemente immerse nella loro povertà e fragilità. Intendo precarietà economica, fatica ad arrivare alla fine del mese. Per essere buoni educatori bisogna essere sempre sintonizzati, attenti e disponibili quindi non completamente sommersi dai bisogni e dalle priorità di sopravvivenza. Per educare bene bisogna essere in grado di vivere e non di sopravvivere. La povertà educativa in Italia è anche il risultato di scelte politiche che negli ultimi decenni non hanno messo l’educazione e la scuola come priorità. Quindi se il progetto educativo su cui crescere non è al centro dell’agenda politica, si rischia poi di non essere al centro dell’attenzione del mondo adulto e poi di chi si deve occupare della crescita».

 

Dal dossier di Save the Children emerge che i quindicenni che vivono in famiglie disagiate hanno quasi 5 volte in più la probabilità di non superare il livello minimo di competenze sia in matematica, sia in lettura rispetto ai loro coetanei che vivono in famiglie più benestanti (24% contro 5%). Tuttavia, tra questi minori, spicca una quota di “resilienti”, ragazzi e ragazze che raggiungono ottimi livelli di apprendimento anche provenendo da famiglie in gravi condizioni di disagio. Come favorire la loro resilienza e illuminare il loro futuro?

«Quando cresci, osservi gli adulti che hai intorno perché crescere, significa anche diventare come loro. Se tu vivi in un contesto disagiato, dove gli adulti sono affaticati o stremati dalla vita e di conseguenza poco appassionati alla vita, ecco che l’esempio che hai davanti non è un esempio che motiva, che ti spinge a trasformare l’età evolutiva in una zona di crescita, di formazione, basata anche sulla fatica e sul darsi da fare. I resilienti però ci dicono che anche dentro contesti di disagio e di fragilità ci sono poi quelli che spiccano il volo. Questi ragazzi trovano dentro loro stessi e probabilmente all’interno della comunità alla quale appartengono, dentro le scuole che frequentano, spinte, motivazioni, esempi. E riescono a farcela. L’idea è sempre quella di aumentare la competenza educativa nelle agenzie educative che esistono nel territorio, in modo che se la famiglia non ce la fa possa essere vicariata prima di tutto dalla scuola, che è la seconda agenzia educativa per eccellenza. Poi l’aiuto può arrivare dalle associazioni, in particolare dalle associazioni sportive, per continuare con l’oratorio, i gruppi scout, le associazioni di volontariato. Tutti quei luoghi in cui si può imbattere un minore all’interno del suo territorio e che possono essere motivanti ad acquisire competenze per la vita».

 

Negli ultimi tempi vi sono stati episodi d’insegnanti aggrediti, picchiati, offesi e umiliati da studenti o dai lori genitori. Siamo di fronte a una vera e propria emergenza?

«Siamo di fronte a una zona in cui non esiste più una mente adulta comune che sa sostenere la crescita dei minori. Sono saltate le alleanze tra adulti, cioè tra genitori e insegnanti. Il conflitto che spesso vediamo in aula, dove ci sono studenti che provocano docenti molto deboli, è lo specchio di quello che è successo negli ultimi anni. La famiglia invece di allearsi con la scuola, è entrata in conflitto. La famiglia è entrata a scuola pensando di doverla combattere, di doverla trattare come un nemico, quindi in questo modo la famiglia ha costruito un modello di prepotenza. Sarebbe fondamentale che ciascuno facesse il proprio mestiere e che la famiglia si affidasse alla competenza educativa della scuola. Pensando che la scuola è un luogo dove vi sono delle competenze che a volte non sono quelle della mamma e del papà, per fortuna. Sono solo competenze diverse».

 

È autore di molti bestseller per genitori, educatori e ragazzi. L’ultimo è “Il metodo famiglia felice. Come educare i figli alla vita” (De Agostini 2018) scritto a quattro mani con Barbara Tamborini. Non è dunque vero che “tutte le famiglie felici si assomigliano” come scriveva Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina?

«No, non si assomigliano perché ogni famiglia ha la sua storia, le sue relazioni, le sue caratteristiche, i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza. La famiglia per chi sta crescendo è un luogo di costruzione, di protezione e di sicurezza, è un luogo di educazione e di formazione. La famiglia è anche un luogo di preparazione per la futura esplorazione del mondo, della vita e delle relazioni che stanno fuori di casa. Quindi ci sono in questi compiti, che sono quelli del proteggere, dell’accudire, dell’educare, del formare e dell’esplorare, delle attenzioni che non possono essere improvvisate e che devono diventare un vero e proprio progetto educativo nella mente di mamma e papà. L’educazione non deve mai essere improvvisata, perché la famiglia è il luogo dove un minore mette a punto il suo hard disk per la crescita. Ora il mondo è più complesso, ecco perché adesso risulta più complicato educare un figlio. Ci sono però molte opportunità in più, i miei figli hanno più opportunità e possibilità rispetto a quelle che avevo io quarant’anni fa. È chiaro che come genitore devo imparare a selezionare insieme con i figli le possibilità e le opportunità adeguate e invece a bloccare o limitare quelle che pur essendo disponibili non sono opportune».