Il decreto dignità del lavoro e il lavoro da cui si fugge

Le cause della mancanza di lavoro sono molteplici ed hanno un ordine di importanza. La prima è, s’intende, la stagnazione economica e produttiva, che dura da tre decenni. Semplicemente: dove non c’è domanda di prodotti, non c’è domanda di “produttori”. Ma, a volte, la domanda c’è, ma i  “produttori” mancano all’appello. In questo caso, le cause del mismatching sono o il malfunzionamento dell’informazione o la carenza di competenze tecnico-professionali e di mancata cultura del lavoro.

Quando il lavoro significa(va) sfruttamento

Nella cultura prevalente del movimento operaio il lavoro equivale allo sfruttamento. Il lavoro è ciò che devi vendere per sopravvivere. I datori di lavoro tendono a spremerti fino al limite, perché c’è sempre qualcuno che può prendere il tuo posto, provenendo da un immenso esercito di riserva. Inutile dire che le secolari lotte del movimento sindacale e politico dei lavoratori hanno posto argini crescenti allo sfruttamento della persona che lavora, sia per quanto riguarda gli orari sia per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro. Intanto, il gap tra lavoro manuale e lavoro intellettuale si è venuto assottigliando. Tuttavia è rimasto un deposito ideologico sul fondo, prodotto di cause materiali – ancora oggi non facilmente eliminabili – e culturali, in forza del quale il lavoro è una condanna biblica, da scontare necessariamente, che ha poco a che fare con la “fioritura umana”, di cui hanno scritto con parole diverse in tempi diversi tanto Aristotele quanto il giovane Marx.
Certamente più densa è la cultura del lavoro, che proviene dal pensiero sociale della Chiesa, quale espresso, da ultimo, nella Centesimus Annus del 1991 di Papa Giovanni Paolo II. Il lavoro è la modalità concreta con cui la persona contribuisce alla costruzione della società e alla generazione della storia. Non che, realisticamente, tale pensiero ignori le condizioni concrete in cui il lavoro oggi si trova, ma indica un orizzonte di liberazione, nel quale il conflitto sociale può trasformarsi in collaborazione creativa, in compartecipazione economica. La Mitbestimmung tedesca è forse, almeno in parte, il moderno e residuale esito dell’owenismo, del mazzinianesimo, del laburismo cristiano-sociale, che alludono ad una concezione creativo-realizzativa del lavoro e, pertanto, alla compartecipazione economica, nella quale la proprietà sia fondata sul lavoro oltre che sul capitale. D’altronde, l’organizzazione capitalistica del lavoro e della produzione non è certo l’ultimo grido della civiltà umana. La crescita della cultura della dignità umana e le nuove frontiere della tecnologia rendono possibili nuovi orizzonti produttivi, nuova condizione esistenziale per chi lavora, un diverso modo di produzione. Forse non è così vero che “il capitalismo ha i secoli contati”…

I giovani e il lavoro. “Vivere per consumare”

Intanto, però, si è depositata nella coscienza diffusa delle giovani generazioni l’idea del lavoro non come realizzazione del Sé, ma solo come una fragile passerella verso l’altra sponda di una vita pienamente vissuta in altri ambiti esistenziali. Il lavoro non è la vita vera, è solo un interstizio senza significazione tra gli spezzoni della vita reale. Non è lì che si realizza la tua fioritura. Quali le cause di questa ideologia, il cui esito finale è il rifiuto del lavoro e l’attesa di un reddito di cittadinanza, che sollevi dalle necessità quotidiane e consenta una realizzazione di sé al di fuori dalla società e dalla storia? Certamente una è l’ideologia della “decrescita felice”. Muove da dati oggettivi. Intanto, dallo spreco enorme di forze produttive della società capitalistica e consumistica, nella quale il “produrre per vivere” si è rovesciato nel “vivere per produrre” e il “consumare per vivere” nel “vivere per consumare”. Dal consumo drammatico, non governato, del pianeta, l’unico che abbiamo.

Su questi dati è stata costruita in questi decenni una cultura fallace, ma affascinante della fuga dalla produzione e dal lavoro. Un’altra causa è l’assistenzialismo sia come pratica statale sia come cultura. Viene da lontano. E’ stato possibile quale altra faccia dello sviluppo disordinato dei primi anni della Repubblica, quando il PIL oscillava attorno al +6% annuo. Solo che quella percentuale si è gradualmente abbassata, fino al segno meno, mentre l’assistenzialismo ha continuato a crescere. E’ nel corso degli anni ’70 che la risposta delle classi dirigenti nazionali al sommovimento generazionale e politico del ’68 venne concordemente espressa non dalle riforme socio-economiche e politico-istituzionali, ma dal debito pubblico. Che è esattamente l’effetto di ogni “sì” alle rivendicazioni corporative particolari di settori della società italiana. A chi grida più forte ed è in grado di farsi sentire la bocca viene riempita d’oro, come ebbe a teorizzare un giorno Andreotti, parlando degli altoatesini. Così, ha fatto breccia tra le nuove generazioni di allora l’idea che i bisogni avevano diritto di diventare automaticamente dei diritti. Il diritto a ogni diritto: questa l’essenza del “dirittismo”. Le nuove generazioni di allora hanno generato i millenials di adesso, cui hanno trasmesso questa ideologia corruttiva dell’etica pubblica e del senso della comunità nazionale.
Uno degli effetti è la posizione di attesa e di mancata assunzione di responsabilità da parte dei giovani qui e ora. A partire dal periodo di istruzione, formazione, educazione. Il tempo di scuola non è più tempo di vita e non prepara alla vita. E’ infotainment assistito. E’, a sua volta, un interstizio, dentro un percorso di vita non più agganciato al mondo reale. Il tempo dell’irresponsabilità verso il mondo.
Una domanda, per niente affatto maliziosa: tutto ciò ha a che fare con la politica presente?