Papa Francesco: “Successo, potere e denaro sono i grandi idoli che schiavizzano”

Successo, potere e denaro. Gli idoli, le tentazioni di sempre, riassunte dall’idolo per eccellenza: il vitello d’oro, pretesto per mettere al centro se stessi invece di Dio. Nella seconda catechesi dedicata all’idolatria, sulla scorta del Decalogo, il Papa ha usato l’immagine del deserto, per simbolizzare la condizione di precarietà e insicurezza tipica di noi esseri umani. E ha esortato a non considerare la fragilità una debolezza, perché è dalle piaghe di Gesù che siamo stati guariti. Al termine dell’udienza, Francesco ha ricordato Edith Stein, morta ad Auschwitz il 9 agosto 1942. “Che lei, patrona d’Europa, preghi e custodisca l’Europa dal cielo”, l’auspicio.

“Il deserto è un’immagine della vita umana, la cui condizione è incerta e non possiede garanzie inviolabili”, ha esordito il Papa a proposito delle “ansie primarie” dell’uomo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. E’ il deserto a provocarle, ed è lì che si innesca l’idolatria, come mostra la storia del popolo di Israele, che cade nel “tranello” della richiesta di “un dio visibile”, per potersi orientare nel momento in cui viene a mancare il loro leader.

“Successo, potere e denaro. Questi sono i grandi idoli. Sono le tentazioni di sempre!”, esclama Francesco: “Ecco che cos’è il vitello d’oro: il simbolo di tutti i desideri che danno l’illusione della libertà e invece schiavizzano. Perché gli idoli sempre schiavizzano”. “La natura umana, per sfuggire alla precarietà, cerca una religione fai-da-te”, ammonisce il Papa: “Se Dio non si fa vedere, ci facciamo un dio su misura”. L’idolo, allora, non è che “un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani”.

L’idolatria, in altre parole, “nasce dall’incapacità di confidare soprattutto in Dio, di riporre in lui le nostre sicurezze, di lasciare che sia lui a dare vera profondità ai desideri del nostro cuore”. Al contrario, “il riferimento a Dio ci fa forti nella debolezza, nell’incertezza e anche nella precarietà”, garantisce Francesco a braccio: “Senza primato di Dio si cade facilmente nell’idolatria e ci si accontenta di misere rassicurazioni”. “Ma questa è una tentazione che noi leggiamo sempre nella Bibbia”, prosegue il Papa sempre fuori testo: “Liberare il popolo dall’Egitto a Dio non è costato tanto lavoro, lo ha fatto con segni di potenza, di amore. Ma il grande lavoro di Dio è stato togliere l’Egitto dal cuore del popolo, cioè togliere l’idolatria dal cuore del popolo”. Lavoro che Dio continua ancora oggi a fare: “Togliere l’Egitto che portiamo dentro, che è il fascino dell’idolatria”.
“Accettare la propria fragilità e rifiutare gli idoli del nostro cuore”. È l’invito finale dell’udienza. “Quando si accoglie il Dio di Gesù Cristo, che da ricco si è fatto povero per noi, si scopre che riconoscere la propria debolezza non è la disgrazia della vita umana, ma è la condizione per aprirsi a colui che è veramente forte”, spiega Francesco: “Allora, per la porta della debolezza entra la salvezza di Dio; è in forza della propria insufficienza che l’uomo si apre alla paternità di Dio. La libertà dell’uomo nasce dal lasciare che il vero Dio sia l’unico Signore. E questo permette di accettare la propria fragilità e rifiutare gli idoli del nostro cuore”. “Siamo stati guariti proprio dalla debolezza di un uomo che era Dio: le piaghe”, prosegue a braccio citando Isaia: “E dalle nostre debolezze possiamo aprirci alla salvezza di Dio. La nostra guarigione viene da colui che si è fatto povero, che ha accolto il fallimento, che ha preso fino in fondo la nostra precarietà per riempirla di amore e di forza. Lui viene a rivelarci la paternità di Dio; in Cristo la nostra fragilità non è più una maledizione, ma luogo di incontro con il Padre e sorgente di una nuova forza dall’alto”