Memoria di Rita Borsellino. Una vita contro le mafie e per l’impegno civile

“Rita è donna che ha scrutato la storia, libera da ogni condizionamento di parte”. Così l’ha ricordata Corrado Lorefice, l’arcivescovo di Palermo. Cosi la ricordano i moltissimi che l’hanno incontrata. Perché dopo la morte del fratello Paolo e della sua scorta, uccisi il 19 luglio 1992, Rita Borsellino ha girato in lungo e in largo l’Italia incontrando migliaia di persone, in particolare giovani, perché era convinta che la memoria delle vittime andava trasmessa ai ragazzi come impulso di vita e verità e come il desiderio di costruire un’Italia mai più compromessa con le mafie e i corrotti. Rita è morta a ferragosto, a 73 anni, dopo una lunga malattia. Da lei – ha detto ancora mons.Lorefice, “possiamo imparare qualcosa della vera umiltà della fede, il suo era un cuore non avvezzo al compromesso – ha proseguito – la sua storia personale l’ha legata alla storia di un popolo, di questa città e di un’intera umanità: gli scartati dai potenti di turno, e loro giudicheranno la storia intera. Mi porto ancora lo sguardo di Rita del 19 luglio quando lei stessa ha voluto la benedizione di quella targa che è sotto l’albero di ulivo che parla da sè, come è capace di parlare un segno. E su quella targa, citando Antonino Caponnetto, alla fine si legge ‘a te che sei qui a fare memoria, ricorda che sei parte di questa storia e devi continuarla’. E proprio il 19 luglio scorso Rita, in una intervista, ebbe a dire che il modo migliore per ricordare Paolo Borsellino è fare memoria. “Significa ricordare non un giorno l’anno, ma operare ogni giorno affinche’ il passato non ritorni”.

Qualche anno fa, scesi a Palermo per incontrarla. Questo è il testo di una parte di un lungo dialogo.

Quando arriva in fondo all’appartamento dove lavora, che è in un palazzo all’interno del mercato del Capo, uno dei rioni popolari più colorati e vivaci di Palermo, molta gente del posto si affaccia sulle porte e la saluta. Come una di loro, orgogliosi che abbia scelto di stare lì, nella zona del mercato della frutta e del pesce. Rita Borsellino è sorella di Paolo, il giudice del pool antimafia, assassinato, con tutta la scorta, nell’esplosione dell’autobomba sotto la casa, in via D’Amelio, il 19 luglio del 1992. Eppure dopo la morte del fratello questa donna – laureata in Farmacia, sposata e madre di tre figli – ha saputo imporsi all’attenzione pubblica per l’impegno contro la mafia e per la lotta per una Sicilia diversa, segnata dalla legalità e dalla giustizia. Una donna tenace, che vive quotidianamente sotto scorta e che, insieme a don Luigi Ciotti, ha obbligato la comunità civile – ma anche quella ecclesiale – siciliana a chiamare per nome le illegalità, a non coprirle con omissioni e complicità.

Dal 1992 ha cominciato a lavorare con la società civile: le testimonianze nelle scuole, l’esperienza in Libera come vice – presidente, l’impegno in politica con la candidatura alle regionali in Sicilia… Qual è il senso di questo percorso?
Il mio impegno è cominciato subito dopo la morte di mio fratello, quasi come un bisogno che avvertivo (e che prima non avevo) di comunicare con gli altri, di condividere una storia che, a poco a poco, sentivo appartenere non soltanto a me. L’avevo maturato un attimo prima della morte di Paolo, subito dopo la morte di Giovanni Falcone, quando avevo visto quanto questa società palermitana così contraddittoria – per certi versi apatica e asfittica – avesse puntato su mio fratello prendendolo come punto di riferimento. Ricordo il funerale di Paolo. Doveva essere privato e vi parteciparono, invece, migliaia di persone. Molte di queste piangevano come si piange un familiare e, soprattutto,  lo chiamavano per nome. Quel pomeriggio caldissimo di luglio mi guardavo attorno e vedevo una Palermo che non era quella che altri volevano che si credesse, che Palermo non era quella che io stessa pensavo: era fatta di decine e decine, centinaia di migliaia di persone oneste, buone, che ci credevano, che avevano riconosciuto in Paolo qualcuno che lavorava per loro, che cercava di riscattarli e ne piangevano la morte. Capii che non potevo stare più chiusa dentro il mio guscio, anche perché il mio guscio non c’era più, la mia casa era stata distrutta insieme ad altri 140 appartamenti in quella via D’Amelio. Allora ho cominciato a mettermi in gioco. Prima in una scuola, raccontando di Paolo, della sua passione per la vita, cercando di mettere in evidenza i valori per i quali era vissuto e aveva affrontato la morte, peraltro con grande consapevolezza. E poi, via via, dove ero chiamata a parlare, a testimoniare. Ho cominciato ad uscire – io che, da sempre, sono timida e restia a mostrarmi -, a incontrare persone, a sentire quello che Paolo chiamava “la bellezza del fresco profumo di libertà”. E’ proprio vero, ciò che puzza è il silenzio, la complicità, anche soltanto la contiguità o il girare la testa dall’altra parte: tutto questo puzza di morte. La libertà, la voglia di giustizia hanno un profumo bellissimo che ti contagia, di cui non puoi più fare a meno. E così è nato il mio impegno che piano piano lungo la strada si è ingigantito: le carovane antimafie, Libera, che è nata nel 1995 con l’intento di coordinare e sollecitare l’impegno della società civile contro tutte le mafie. Ho capito che non mi potevo più sottrarre, non ne avevo il diritto. Dovevo mostrare che era possibile vivere l’impegno civile come passione per la giustizia e che bisognava realizzare quanto mi insegnava Antonino Caponnetto e cioè che la politica è il servizio più alto che si può rendere alla società. Altro che cosa sporca!

Lei sta parlando di una scelta di una Sicilia diversa. Sembrava un sogno, ma in questa stagione per molti sta diventando una speranza per cui lottare concretamente. Dal sogno alla speranza: puoi indicare un cammino concreto, anche a livello simbolico, che dia il senso di una speranza reale, capace di trasformare l’umiliazione della servitù in una nuova democrazia dei diritti?
Penso ai ragazzi della cooperativa “Placido Rizzotto”, ai giovani che lavorano e coltivano ettari di terra confiscati ai boss della mafia, grazie alla legge di iniziativa popolare 109 del 1996 nata da una grande mobilitazione promossa da Libera. Consideri che i ragazzi sono di Corleone, di Canicattì, non vengono dall’altra parte. Vivono nel territorio con le sue contraddizioni e le sue violenze però trovano il coraggio di prendere le distanze pur restandoci dentro. Diventano pietre di scandalo, sudano, faticano su terre restituite alla collettività e fanno prodotti con un sapore in più: quello della legalità, del riscatto, della libertà. Il loro vino, il loro olio, la pasta, il miele, sono segni e noi siamo coscienti del potere dei segni contro il segno del potere della mafia. Penso ai ragazzi di “Addiopizzo” che hanno tappezzato le strade del centro di Palermo di piccoli adesivi listati a lutto con scritto: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Sono ragazzi cresciuti alla luce di qualche cosa che è diventato valore. Che hanno trasformato l’indignazione in responsabilità e scelta.

Come creare percorsi di legalità che arrivino a cambiare le istituzioni …
Noi chiediamo ai quartieri degradati delle città, di ogni città – perché ce ne sono al Nord come al Sud – il rispetto delle regole, chiediamo che la legalità venga rispettata e, giustamente, ci indigniamo quando questo non avviene. Ma… le istituzioni cosa danno? Cosa fanno? Spesso neghiamo diritti, case che non sono case o che non ci sono, neghiamo servizi, lavoro, istruzione, sanità. Neghiamo i diritti fondamentali di una società però pretendiamo che siano osservate le regole. Lo Stato per molti è visto solo nel suo volto repressivo. Siamo interpreti di uno Stato che pretende qualcosa senza dare nulla in cambio. Le istituzioni per essere credibili prima di tutto devono mettersi in regola. Loro stesse. Devono rimettere al centro la persona, con i suoi diritti e, soprattutto, con la sua umanità. Devono fare in modo che le ingiustizie sociali vengano colmate, che non ci siano cittadini di serie A e di serie B, anzi, che quelli di serie B siano protetti, incoraggiati e sostenuti proprio perché più deboli. Noi sappiamo che le leggi servono per chi fa più fatica perché i forti e i ricchi spesso non ne hanno bisogno. I loro diritti li fanno valere da sé. E spesso le leggi se le fanno a loro uso e consumo. Le istituzioni devono aiutare a comprendere che i diritti non possono essere spacciati per favori, che ciò che spetta non può essere mendicato o ottenuto con gli appoggi. Tutto questo cambia non perché lo si dice ma perché si danno risposte concrete.

Lei ripete spesso che Dio le ha detto il grandissimo dono di non provare odio nei confronti di nessuno…
Quando dico che è un dono intendo proprio dire che mi è arrivato gratis. Quando arrestarono Totò Riina lo mostrarono in televisione e io, nel momento in cui scorrevano le immagini, mi chiedevo, in modo sofferto e quasi con paura, cosa provavo nei suoi confronti… Ho sentito che dietro di me, piano piano, si era avvicinata mia madre. Mia madre aveva 86 anni, aveva visto morire suo figlio, perché Paolo veniva quel giorno a casa mia per trovare la mamma che non stava bene. Aveva appena avuto il tempo di suonare il campanello di casa e poi scoppiò il finimondo: muri che crollavano, tetti che si sbriciolavano, schegge da tutte le parti, pareti che si aprivano, sirene impazzite, fiamme dovunque. Mia madre sapeva, in modo certo, che, in quegli attimi, Paolo moriva. Eppure il giorno dell’arresto di Riina, vedendolo in televisione, ho sentito la sua voce che diceva:  “Che pena mi fa quell’uomo!”. E’ stato per me un messaggio straordinario. Lei era riuscita a vedere l’uomo. Io me lo stavo ancora chiedendo, non c’ero riuscita. Mamma con lo stesso sguardo di Paolo, aveva visto l’uomo dentro Totò Riina e aveva visto un uomo che le faceva pena. Ripeto spesso che per perdonare bisogna mettere insieme la testa e il cuore perché solo la testa o solo il cuore sono due cose diverse ma non sono il perdono. Sono percorsi intellettuali o emozionali ma che sono altra cosa dal perdono. Anche questo me l’ha insegnato Paolo. Spesso ci diceva che quando si ha  davanti una persona, mafiosa o criminale che sia, prima di tutto si deve cercare l’uomo. Con la sua coscienza, le sue ragioni e i suoi errori. Chiedendosi da dove viene, perché è arrivato lì. I bambini che nascono sono tutti uguali, amava ripetere: sono le storie e le persone che hanno incontrato che li hanno cambiati, e, molte volte, è solo un caso che divide le persone. E poi interrogandosi su dove va, perché dove va è anche un compito mio. Bisogna imparare a sentirsi ognuno responsabile di ciò che accade. A ragionare sui piccoli compromessi che ciascuno di noi fa nella vita quotidiana che ci fanno perdere il confine tra ciò che è giusto e ciò che non lo è.

Come giudica l’impegno della comunità cristiana nei confronti della mafia?
È stato altalenante. Si è passati da “La mafia non esiste”, del cardinal Ruffini, all’impegno di molti che, per questo, hanno pagato pesantemente.  Penso a padre Puglisi assassinato sotto casa su commissione dei mafiosi del quartiere. Penso all’impegno del cardinal Pappalardo. Fu lui a pronunziare, nel 1978, la scomunica ai boss della mafia, recuperando anni luce rispetto ai suoi predecessori che si limitarono ad una scomunica dei semplici criminali. E poi una serie di documenti, di appelli, di omelie. Famosa quella in occasione dei funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie e dell’agente di scorta, massacrati una sera di settembre dell’ 82. Mentre a Roma si discute, Sagunto veniva espugnata, disse. Parole di fuoco che rimasero impresse nella memoria. Fu accanto a Papa Giovanni Paolo II nel maggio del 93 quando nella valle dei templi il pontefice lanciò l’anatema ai mafiosi, “Convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio!”. E fu proprio lui a celebrare i funerali di padre Pino Puglisi. Certo, ad un certo punto qui in Sicilia abbiamo avuto l’impressione che anche a lui fosse stato consigliata prudenza e maggior silenzio… Insomma, una Chiesa, questa siciliana, a volte presente, molto spesso acquiescente. Se ancora oggi il vescovo di Trapani alza ancora la voce dicendo ai parroci: “non accettate e non cercate le regalie degli uomini politici che vi ristrutturano le chiese”, vuole dire che il problema esiste ed è presente più di quanto vorremmo riconoscere. L’ho detto il giorno stesso della morte del cardinale: “Nei momenti più bui della nostra storia il monito contro la mafia di Pappalardo alla società siciliana e alle istituzioni ha rappresentato un segnale fondamentale per il riscatto dei siciliani. Il modo migliore per ricordarlo è, oggi, tenere fede a quel monito.”