Ognuno di noi è “Viaggiatore suo malgrado”. Alla ricerca delle radici con la scrittrice Minh Tran Huy

«Mi sentirò sempre e ovunque straniera». Chi se ne va non tornerà più a casa, neanche se si ristabilisce in patria, e nel cuore conserverà sempre una forma di inguaribile nostalgia, di sospensione. Lo racconta Minh Tran Huy, scrittrice francese di origini vietnamite, nel romanzo “Viaggiatore suo malgrado” (edizioni O barra O), presentato al Festivaletteratura di Mantova. Minh ha un storia particolare: i suoi genitori erano contadini, sono fuggiti dal Vietnam durante la guerra ed emigrati in Francia. Lei è nata a Clamart, nella regione parigina, ha studiato alla Sorbona, è diventata redattrice del mensile «Le Magazine Litteraire» e ha poi ottenuto molti successi grazie ai suoi libri: finalista nel 2007 al Premio Goncourt con il romanzo La principessa e il pescatore”, nel 2008 ha vinto il Premio Gironde Nouvelles Ecritures. Nel 2011 è stata nominata Cavaliere delle Arti e delle Lettere. Alla luce di questo percorso racconta cosa significa avere a che fare con le proprie radici, avvertire lo smarrimento di chi non si sente mai a casa da nessuna parte. Molto significativa la citazione in esergo di George Perec (scrittore francese di origine polacca, con entrambi i genitori morti in campo di concentramento), da “Ellis Island”: «In un certo senso, sono straniero rispetto a qualcosa di me stesso; in un certo senso, sono “diverso”, ma non diverso dagli altri, diverso dai “miei”: non parlo la lingua che parlavano i miei genitori, non condivido nessuno dei ricordi che potevano avere. Quel qualcosa che apparteneva loro, che faceva sì che fossero quello che erano, la loro storia, la loro cultura, la loro speranza, non mi è stato tramandato».

Minh tiene nel cuore il destino dei suoi genitori: “Oltre all’esilio culturale – spiega – hanno subito una migrazione di classe sociale, e hanno dovuto imparare tutto da capo, la lingua, i codici di comportamento, le tradizioni: hanno colmato il divario rimettendosi a studiare”. Anche i personaggi del libro hanno tutti in comune un viaggio che li porta lontano dal paese natio. Ci sono una famiglia vietnamita (che per molti versi rispecchia quella di Minh), un operaio francese vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, con una curiosa malattia, la “dromomania”, o follia del fuggiasco, che lo spinge a partire da un momento all’altro, e l’atleta somala Samia Yusuf Omar che non partecipa alle Olimpiadi di Londra perché proprio in quell’estate muore su un barcone di disperati nel tentativo di raggiungere l’Occidente. Sono in fuga da guerra e povertà oppure cercano condizioni di vita migliori. Il racconto è scandito da “andate”, sulle traiettorie – non sempre lineari – lungo le quali i personaggi si spingono, e “ritorni”, accompagnati dalla tensione a ricomporre tutti i pezzi. La distanza (nello spazio e nel tempo) crea spaesamento, rimpianto per le cose perdute e per quelle che non si sono mai realizzate. Alimenta il bisogno di attingere ai fondamenti della propria identità, di ricordarsene, di rinnovarla. È una condizione in cui chiunque abbia subito un allontanamento, una separazione, grande o piccola, può identificarsi. E per una volta può far bene scoprire che a chiunque può capitare, nella vita, di ritrovarsi “viaggiatore suo malgrado”.