L’ecologia della comunicazione: “Non basta evitare di ledere la dignità”

«È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente!». Con queste parole, nel finale di Deadline di Richard Brooks (il titolo italiano di questo film del 1952 è L’ultima minaccia) Ed Hutcheson-Humphrey Bogart preannuncia a un boss della malavita che i suoi crimini verranno resi noti a breve nelle pagine del quotidiano The Day. Oggi, però, la fiducia dell’opinione pubblica negli organi di informazione e nel loro ruolo di sostegno alla democrazia è in calo, un po’ ovunque: all’inizio di quest’anno, un sondaggio Gallup aveva documentato che solo il 33% per cento degli statunitensi dà credito ai giornali (erano il 72% nel 1976, due anni dopo che il presidente Richard Nixon era stato indotto a dimettersi dai risultati di un’epica inchiesta del Washington Post sullo «Scandalo Watergate»).

Secondo il vaticanista Giovanni Tridente, che insegna nella facoltà di Comunicazione sociale istituzionale della Pontificia Università della Santa Croce a Roma, «troppo spesso gli organi di informazione hanno abdicato alla loro vocazione originaria: anziché rimanere al servizio della società civile, in molti casi hanno finito per perseguire altri obiettivi, soprattutto di tipo economico. Capita per esempio che i giornali tendano a privilegiare delle forme di intrattenimento, con pseudo-servizi che di fatto scadono nel chiacchiericcio.  Si crea così un circolo vizioso: la frivolezza alimenta la superficialità, il deficit di professionalità di alcuni giornalisti impedisce ai lettori o agli ascoltatori di maturare un’effettiva capacità di giudizio sulle questioni trattate».

Sabato 20 ottobre, a Bergamo, Tridente interverrà al convegno Share Respect, con una relazione sul tema Chiesa 3.0 e comunicazione digitale. L’evoluzione dei linguaggi dal Concilio Vaticano II all’era dei social network (il programma completo dell’iniziativa può essere scaricato cliccando qui).

Professore, in un’introduzione che ha scritto per l’ebook #Connessi. I media siamo noi, pubblicato dalle Edizioni Santa Croce, lei affronta la questione della responsabilità etica dei giornalisti a partire da un’affermazione di Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: «Tutto nel mondo è intimamente connesso».

«Le azioni e gli atteggiamenti di ogni essere umano hanno delle conseguenze, a diversi livelli, all’interno della creazione. In quel mio testo, usando l’espressione “ecologia dei media” volevo sottolineare la necessità che chi lavora nell’ambito dei mezzi di comunicazione sociale sia consapevole delle ricadute di quanto va facendo sulle vite di altri. Non si tratta solo di evitare di ledere la dignità e l’onorabilità di chicchessia; occorre anche, in positivo, portare un contributo all’individuazione e alla soluzione dei problemi che gravano sulle persone. In vista di questo fine, si dovrebbe stabilire un’alleanza morale tra gli operatori dei mass media e il pubblico».

Lei accennava al rischio che l’informazione lasci il posto a una «fiera delle vanità». Oggi, però, non si va diffondendo anche uno stile giornalistico «ultramilitante»? Pensiamo alla recente operazione di lancio mediatico, in America e in Italia, del testo in cui l’arcivescovo Carlo Maria Viganò chiedeva le dimissioni di Papa Francesco.

«In casi come questo, più che di “giornalismo” bisognerebbe parlare di “propaganda”. Ci sono persone convinte di dover correre in difesa di un certo modello di società – o anche di Chiesa – modificando la realtà oggettiva dei fatti o ricorrendo a delle “mezze verità”. Quando poi si invitano queste persone a portare le prove di ciò che affermano, ecco che preferiscono glissare e si sottraggono a qualsiasi contraddittorio».

Sempre riguardo a certe forme aggressive di giornalismo: qualche giorno fa un quotidiano a diffusione nazionale, riferendosi al caso di una donna del Bangladesh ricoverata in ospedale con il figlio neonato, titolava in prima pagina Torna il colera a Napoli. Lo hanno portato gli immigrati. Le diverse «carte deontologiche» adottate in Italia dall’Ordine dei giornalisti non bastano a evitare esternazioni di questo genere?

«Sembrerebbe proprio di no, che la minaccia di sanzioni da parte dell’Ordine – in molti casi peraltro blande – non sia sufficiente a garantire che noi giornalisti rispettiamo nel nostro lavoro la dignità delle persone di cui scriviamo. Ritorniamo al punto saliente, che è quello della responsabilità morale di chi opera nel settore dell’informazione. Non si può immaginare di risolvere la questione etica mediante prescrizioni e divieti imposti dall’esterno; anzi, la richiesta di regole sempre più severe e dettagliate – anche per quanto attiene all’uso dei social network – può costituire un alibi per evitare di riflettere in prima persona sugli obblighi morali che attengono al mestiere del giornalista».