Videogiochi di ieri e di oggi. Dalla Playstation allo smartphone: strategie di resistenza alla solitudine

“Oggi pomeriggio a casa mia per le 16.30, ho preso il nuovo Fifa. Torneo di Play in 4”. La frase più attesa dell’anno scolastico arrivava più o meno ad ottobre, quando il solito fortunato della classe che compiva gli anni quel mese riceveva puntualmente il regalo più desiderato dai ragazzini: l’ultima edizione del videogioco di calcio per Play Station più celebre. Era il primo ad averlo e dunque diventava il compagno di scuola più invidiato. Solitamente era generoso e, comprendendo i nostri sguardi da avvoltoi, ci invitava a casa sua a trascorrere pomeriggi attaccati alla televisione con i joystick in mano. Ci si divertiva, si condividevano piccole grandi emozioni, ci si prendeva in giro, si iniziava a comprendere i caratteri di ognuno e nel mezzo si faceva merenda insieme distraendosi ogni tanto anche con le figurine, due calci al pallone, raramente col ripasso della lezione di storia, geografia o della materia che il giorno seguente avrebbe previsto una verifica. Insomma, la Play Station era una scusa per stare insieme. Certo, come tutte le console era previsto che si potesse giocare anche individualmente contro il “computer”, ma giocare contro i propri amici era – ed è tuttora – ben altra cosa. Non che fosse come praticare uno sport di squadra perché mancava l’aria aperta, lo sforzo fisico (anche se da alcune partite si usciva provati) e molto altro, ma il senso di condivisione, l’iniziare a prendere confidenza con la vittoria e la sconfitta e lo stare in mezzo alle altre persone erano sicuramente punti in comune. Limitati, perché da sempre i genitori ci hanno imposto limiti di tempo da trascorrere davanti alla Play, ma senza sforzarsi più di tanto. La tentazione di giocare ad oltranza c’era, ma ad un certo punto eravamo noi stessi a comprendere che era il momento di dire basta, magari dopo l’ennesimo “l’ultima, poi spengo”, ma sapevamo limitarci e mai spegnere annoiati, tristi, piuttosto soddisfatti per quanto avevamo fatto e pronti a dilungarci in sfottò tra chi aveva vinto e chi perso. La solita solfa del “Si stava meglio ai miei tempi”? Forse sì e se ne chiede subito venia per la banalità, ma nel caso specifico dei videogiochi qualche elemento concreto a supporto di questa tesi c’è. Me ne sono accorto giusto qualche settimana fa quando ho visto un mio cugino di dodici anni giocare annoiato ad oltranza ad un videogioco installato sullo smartphone. Era da solo, col naso nello schermo, stravaccato sul divano, isolato da tutto e da tutti che pigiava meccanicamente indici e pollici sul touch screen. Ero sicuro non si divertisse. Anche lui ce l’ha la Play Station, così come tanti altri coetanei o ragazzi più grandi, ma la console più riuscita di sempre ha dovuto cedere il passo all’immediatezza dei videogiochi da smartphone che hanno cambiato le logiche anche del divertimento virtuale. Giocare insieme ad altri amici su questi dispositivi è complicato e anche quando avviene è per lo più “a distanza” e quindi viene meno il contatto fisico di una partita al vecchio Fifa, giocata gomito a gomito con l’amico-avversario. E poi manca il divertimento quello da assaporare lentamente perché, come detto, tutto è immediato e all’insegna del consumismo, basta uno “scarica” spesso gratuitamente e il gioco è pronto per partire. Puoi giocare sugli smartphone come e quando vuoi, mentre alla Play potevi farlo solo a casa e allora c’era tutta l’attesa di raggiungere la postazione, che accresceva il desiderio e il piacere di giocare. Ai tempi delle prime versioni della Play Station insomma si giocava per divertirsi, ora si fa partire il videogioco per far passare il tempo. Tornare indietro è difficile, impossibile, forse non è nemmeno giusto, ma anche in questo frangente ci troviamo a dire quanto quelle “diavolerie” digitali tendano ad isolare, annoiare, nevrotizzare, alienare chi da esse dipende. Anche trattandosi di giochi, uno degli strumenti educativi più efficaci per i bambini.