Schiacciati sul presente. Giuseppe De Rita: “E’ questa la trappola della modernità”

Nel volume “Prigionieri del presente” (Einaudi 2018, Collana “Passaggi Einaudi”, pp. 112, 14,50 euro) di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo gli autori indicano al lettore “Come uscire dalla trappola della modernità”, come recita il sottotitolo del testo. In queste illuminanti pagine De Rita, 86 anni, fondatore e Presidente del Censis (Centro studi investimenti sociali), Presidente del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) dal 1989 al 2000, e Antonio Galdo, giornalista e scrittore, dimostrano come il presentismo sia il male oscuro dell’uomo contemporaneo e di questa società dell’immediatezza, e che sia dunque una forma moderna di schiavitù. Se è vero che “Il senso della vita è resistere all’aria del tempo”, come sosteneva Albert Camus, esergo del testo, abbiamo intervistato Giuseppe De Rita, attento osservatore delle trasformazioni economiche, sociali e istituzionali del nostro Paese, per farci spiegare come uscire dalla prigione del presente, sfida appassionante da vincere, che riguarda tutti noi.

Una società prigioniera del presente non progetta futuro e non ha memoria del passato. I danni del presentismo spaziano dalla vita privata alla sfera pubblica, colpendo tutti gli aspetti della società: la politica così come l’economia. Ce ne vuole brevemente parlare?

«Il problema del presente sta diventando antropologico nel senso che riguarda tutti quanti noi, riguarda i nostri giovani, gli adulti e anche gli anziani. C’è una bellissima frase di un filosofo siciliano, Manlio Sgalambro che dice: “Il passato è stato il presente di altri, il futuro non mi interessa, perché sarà il presente di altri, a me interessa solo il presente di oggi”. Questa affermazione non è solo un pensiero filosofico di Sgalambro ma è quello che pensiamo tutti e tutta la classe giovanile italiana. Quest’ultima deve pensare in termini di memoria, perché deve abbandonarsi a un’idea di futuro più o meno glorioso. I giovani vivono il presente e non hanno ambizioni per il futuro. Basta aprire uno smartphone e si trova tutto, dalla cosa più banale all’amico da ritrovare su Facebook, dalla cronaca politica se interessa, alle mail da controllare. La passione del presente sta tutta nell’espressione rapita e affascinata che hanno le giovani generazioni quando sono chine sullo schermo dei cellulari».

Nel volume si parla anche di “rivoluzione del presentismo digitale”. Di che cosa si tratta? 

«Con la digitalizzazione si riduce a un attimo, al presente, al momento in cui si trasmette un’informazione o un’immagine. Vedo i miei figli e i miei nipoti che si passano immagini scattate qui e lì, io che ho un occhio diverso guardo queste immagini e sento che loro le vivono come un meccanismo presente. Io in ogni fotografia cerco di capire dove si trovano, qual è lo sfondo, se me lo ricordo e se ci sono stato e quale tipo di emozione provo. Invece i miei figli e nipoti: “Sai, mio cugino mi ha inviato questa foto, guarda quant’è bella!”. Per loro non c’è altro».

È vero che nel nostro Paese cè un nuovo analfabetismo che sta trionfando? 

«Credo di sì, non abbiamo dati sull’analfabetismo di ritorno, però manca quella specie di esercizio della mente che viene dalla lettura, dalla scrittura, dal saper scrivere una lettera, dal saper tradurre un pezzo dal latino o dall’inglese. Manca l’esercizio della mente. L’analfabetismo non è non saper né leggere né scrivere, ma è l’incapacità del pensiero di assolvere tutte le proprie funzioni. Il pensiero l’abbiamo collocato in pochissime funzioni, alcune volte addirittura quasi meccaniche, altre quasi che ci eliminano dal gioco, tipo il digitale che non ci coinvolge ma che ci da solo una risposta.  È evidente che un Paese così anche che sa scrivere, è analfabeta».

Per quanto riguarda la sfera della politica, il “presentismo” ha demolito i pilastri della democrazia rappresentativa aprendo la frattura più grave tra la società e la politica, con la quale in tutto l’Occidente stiamo facendo i conti. È anche per questo che “tutta la politica italiana è mossa dal rancore”, come ha dichiarato in una recente intervista? 

«La società del rancore è emersa dall’ultimo “Rapporto sulla situazione sociale del Paese”, presentato dal Censis nel dicembre dello scorso anno. Il rancore è il lutto di quel che non è stato. Il rancore di marito e moglie che si dividono, per esempio, è il lutto del matrimonio che in pratica non c’è stato, che è fallito. Il rancore di quello che non è stato resta nella pancia, nella testa, nel presente. Il rancore non ha passato né futuro, è il rancore di oggi, la frustrazione e il lutto che si elabora nel momento attuale. Quindi il rancore fa parte anch’esso del “presentismo”».

Si può uscire dalla prigione del presente e dalla trappola della modernità? 

«Il presente è anche qualcosa che macina, metabolizza, rumina tutto quello che avviene. Probabilmente un “presentismo” continuato quale abbiamo avuto negli ultimi quindici vent’anni sta ruminando anche la modernità, magari tra due o tre anni avrà macinato anche il M5S e la Lega. Tutti i meccanismi di discontinuità, come le elezioni politiche del 4 marzo scorso vengono riassorbiti nel “continuismo”, cioè nella continuità dei fatti, la quale altro non è che un continuo presente. Quindi c’è anche un aspetto positivo nel “presentismo”».