A Roma per il Sinodo, a Gaza per i cristiani. Un dialogo con mons. Pierbattista Pizzaballa

Foto: mons. Pierbattista Pizzaballa, Amministratore Apostolico di Gerusalemme

Sono reduce da un viaggio in Terra Santa. Un itinerario, sempre molto intenso, tra le pietre che ricordano la vicenda di Gesù di Nazareth e gli incontri con testimoni che la narrano oggi. Storie di fedeltà e di passione, testimoni che sono pietre vive in una terra complessa, cristiani che tenacemente hanno tramandato e custodito la fede. Con il gruppo, passo in Patriarcato per incontrare mons. Pierbattista Pizzaballa, Arcivescovo e Amministratore Apostolico di Gerusalemme. Come sempre, una sosta importante, uno sguardo, mai scontato, su quanto avviene in quella terra che vede convivere insieme due popoli e tre religioni.
Mons. Pizzaballa è reduce dall’esperienza del Sinodo dei Giovani svoltosi recentemente a Roma. E proprio dal Sinodo parte la mia chiacchierata con lui.

Qual è il tuo giudizio sul Sinodo?

E’ stata una bella esperienza di Chiesa. Ho incontrato una Chiesa plurale per storie e per sensibilità.  Insieme, abbiamo sperimentato la sinodalità che mi pare debba essere una modalità, un modo di essere e di fare Chiesa da prendere sempre più in considerazione. Una Chiesa “con” piuttosto che una Chiesa divisa per categorie. Dal punto di vista dei temi, a dire la verità, non sono uscite cose straordinarie ma richiami ad alcune attenzioni da custodire. Anzitutto, la necessità di una trasmissione della fede che passa, primariamente, attraverso la testimonianza di vita. I giovani hanno bisogno di adulti che raccontino con la loro esistenza la bellezza del Vangelo.

In Occidente è avvenuta una frattura della memoria…

E’ un tema che abbiamo discusso molto. Anche se la questione della trasmissione della fede è un problema da primo mondo. Nel resto del mondo si hanno problemi di altro genere. Da diverse generazioni in Europa, e mi pare anche da voi in Italia, la famiglia non è più il luogo dove la fede viene trasmessa. Io stesso ho imparato a pregare a casa, mi hanno detto le cose essenziali e poi il catechismo le metteva ordine. Adesso il catechismo lo si fa ancora, forse con la stessa struttura di sempre, però non si tiene conto che manca la famiglia.

La Chiesa è avvertita più  come istituzione o come centro di potere e sembra incapace di parlare ai giovani di oggi. Gesù affascina ancora, la Chiesa no. A livello pubblico le comunità cristiane non sono percepite come il luogo della differenza. Poi c’è una questione culturale seria: non si sente più il bisogno di salvezza, il bisogno di Dio. Per quanto si possa fare bene, il discorso ai più non interessa.

Cosa fare?

Anzitutto credo ci voglia coraggio. Non bisogna lasciarsi demoralizzare. Occorre non farsi prendere, e qui penso soprattutto alle chiese del primo mondo, dall’idea che stiamo diventando irrilevanti, che stiamo perdendo numeri. Sono questioni che stanno dentro le logiche di potere. La domanda più pertinente non è se contiamo molto o poco quanto piuttosto come fare in modo  che la bellezza dell’esperienza cristiana possa essere trasmessa. Ancora una volta è centrale il valore della testimonianza che  richiede coerenza e autenticità, parole che sono risuonate spesso in assemblea. Credo importante inoltre non cadere nella tentazione di credere che siano i social la chiave di accesso ai giovani. L’ho detto nel mio intervento al Sinodo. Non è la strategia di mercato o di comunicazione che salva la Chiesa, piuttosto la sua capacità di riandare sempre all’essenziale, cioè a Gesù Cristo.

Qui in Terra Santa in questo siete aiutati…

Siamo obbligati ad una conversione continua all’essenziale della fede. Ci aiutano i luoghi ma anche la nostra condizione. Qui la Chiesa non ha nessun potere, non conta niente. L’unica cosa che i cristiani possono fare è parlare di Gesù attraverso i posti dove lui ha vissuto, tramite la testimonianze e le piccole attività che siamo riusciti a mettere in piedi. Tutto qui. Inoltre, il confronto quotidiano con ebrei e mussulmani obbliga a ridire sempre le ragioni della fede, a non darle mai per scontate.

Sei da pochissimo tornato da Gaza per la tua seconda visita pastorale. Quanti sono i cristiani in quella piccola striscia di terra?

Calcola che a Gaza, un territorio esteso meno di 400 km quadrati, vivono due milioni di persone. Tutti i cristiani messi insieme non arrivano a mille, i cattolici sono al massimo 200. Sono stato quattro giorni interi cercando di incontrarli uno ad uno. Grazie alle suore di Madre Teresa ho potuto incontrare anche alcune famiglie mussulmane tra le più povere.

La situazione è drammatica. In genere l’elettricità arriva in media 5/6 ore al giorno, il sistema fognario è saltato, la disoccupazione è tra il 67 e il 70% e la metà del PIL è data dal lavoro pubblico i cui stipendi, pagati da Abu Mazen, sono tagliati al 50%.  Manca la benzina per cui in giro ci sono molti più carretti con somari e cavalli che automobili. La gente vive una chiusura totale che dura oramai da molto tempo, sotto embargo da oltre dieci anni. Ho visto le fatiche e le preoccupazioni ma è stata anche una bellissima occasione per vedere che la comunità cristiana di Gaza è rimasta unita. Certo, si sono piccole questioni aperte ma averla incontrata è stata per me un incoraggiamento. Nonostante tutto, a Gaza i cristiani non perdono la speranza.