La battaglia social sul rapimento di Silvia Romano: vietato dimenticare di essere umani

Il caso del rapimento di Silvia Romano ha scatenato una nuova battaglia social sul volontariato internazionale, come era già capitato con Greta Ramelli e Vanessa Marzullo (rapite ad Aleppo la notte fra il 31 luglio e il 1º agosto 2014) e con Giulio Regeni. Silvia, 23 anni, è scomparsa lunedì scorso, durante l’attacco a Chakama, villaggio sperduto sulla costa del Kenya a 80 chilometri da Malindi. Mentre le indagini procedono (e l’ultima notizia è l’arresto della moglie di uno dei suoi rapitori), il popolo del web si è diviso in due tifoserie contrapposte: una che ha incominciato a insultare Silvia, biasimando la sua scelta di partire per l’Africa («Lasciatela lì, se è li che ha voluto andare», «Poteva stare a casa e aiutare gli italiani») e una che, ammirando l’impegno umanitario della ragazza, ha incominciato a rispondere per le rime alla prima. A mitragliare insulti e rancori è stata soprattutto la fazione “patriottica”, quella cioè secondo la quale Silvia doveva restare a casa. Massimo Gramellini, nella sua rubrica Il Caffè di giovedì 22 novembre, ha affermato che chi, sul web, ha definito la cooperante come «frustrata», «oca giuliva» e «disturbata mentale» «non sta insultando lei, ma il fantasma della propria giovinezza». Può darsi. Effettivamente, ci si può ben immaginare questi haters che – alle prese con le proprie frustrazioni quotidiane – non possono che ritenersi offesi dal luminoso sorriso di una ragazza, la cui unica colpa è stata quella di impegnarsi per il bene del prossimo. È un po’ la favola della volpe e dell’uva: siccome non ci si riesce a cibare del frutto, si dice che è acerbo. Ma nel pezzo di Gramellini (fra l’altro, lui stesso preso di mira per alcune frasi presenti nell’incipit della sua riflessione su Silvia Romano) manca qualcosa: ovvero che ognuno è libero di gestire la vita come crede e, quindi, anche di aiutare le popolazioni africane. Se, come insegna il cristianesimo c’è una relazione di fratellanza tra i popoli, qual è il problema? Per questo è stupido e avvilente, in risposta a questo rapimento, schierarsi in chiassose tifoserie da stadio, preferendo ragionar di pancia, anziché di testa (e di cuore). Ed è disfunzionale affrontare un dramma del genere da un punto di vista ideologico e non sociale e politico. Una colpa, questa, che cade, purtroppo, anche su coloro che esaltano Silvia e la sua scelta in modo altrettanto sguaiato. La solidarietà è sempre positiva, certamente è vero che ci sono zone in cui sarebbe meglio non mettere piede e scelte che andrebbero ponderate con più attenzione, anche se – per quanto riguarda il caso di Silvia – il Kenya non era considerata finora una zona particolarmente pericolosa. Quel che ora si deve fare, comunque, è mettersi nei panni dei genitori di Silvia, star loro vicini e non perdere la speranza. Ne va della nostra umanità.