Gli interminabili dolori del PD e il futuro della sinistra tutta da inventare

Dunque, ancora una volta dobbiamo raccontare i dolori del PD. Non quelli del parto, bensì quelli dell’aborto. La rinuncia di Minniti alla candidatura alla segreteria, motivata con l’intenzione di salvare il partito, costituisce in realtà la tappa conclusiva del PD verso il deserto dei Tartari. E’ la conferma che la trasformazione di un partito comunista in un partito di sinistra liberale non è possibile.

In tutta l’Europa la sinistra sta chiudendo i battenti

In effetti, non si è mai visto. Poiché, “intanto” anche i partiti socialisti europei risultano in grave crisi – quello francese si è dissolto -, si può essere autorizzati a concludere che la sinistra del ‘900 sta chiudendo i battenti. La conclusione non è originale e, soprattutto, poco recente. Ma vallo a raccontare a chi sta ancora in mezzo ai marosi, a volte sopra il pelo dell’acqua e a volte sotto! Vallo a raccontare ai protagonisti di antichi giorni, che continuano a scambiare i colori del tramonto con quelli dell’alba.

Qualcuno in realtà lo aveva capito e lo ha capito: Matteo Renzi. E per niente affatto in ritardo. O, comunque, ancora in tempo. Con un paio di limiti: uno, molto serio, di una cultura politica assai poco approfondita sul piano teorico e programmatico, anche perché l’intellettualità tradizionale della sinistra non lo ha seguito sulla nuova strada. Né bastava il gruppo di ragazzi generosi e inesperti del “giglio magico”. L’altro limite non è certo consistito nel “caratteraccio”, quanto piuttosto in alcuni errori strategici, già qui altre volte ricordati. Alla fine, quasi tutto il personale politico del vecchio PCI e della vecchia DC si è opposto ferocemente e con ogni mezzo alla metamorfosi. Il baco da seta si è autosoffocato nell’intreccio dei propri preziosi fili, tessuti attorno a se stesso.  Dunque: il PD del 2008 è finito. L’unica risorsa a disposizione – Matteo Renzi – è stata respinta dalla vecchia nomenklatura.
In attesa di capire che cosa farà Renzi – un nuovo partito? riconquista il PD e riprende il tentativo di farne un nuovo partito per cultura politica e per insediamento sociale ? -, resta del tutto aperto il problema delle radici storico-culturali della sinistra nel mondo reale del XXI secolo.

La catastrofe è arrivata

Quella che ha chiuso i battenti era un incrocio tra 1789 e 1848: eguaglianza sociale. Non era soltanto portavoce di principi filosofici. Difendeva e rappresentava il mondo del lavoro. Al capitale dava voce la destra, al lavoro la sinistra. E così è stato. E quando fu chiaro, almeno in Occidente, che il mondo del lavoro non avrebbe mai preso il posto del capitale quale soggetto alternativo di sviluppo delle forze produttive – come utopizzavano i comunisti – i partiti socialisti continuarono a difendere quel mondo e a rappresentarlo: i lavoratori come produttori e i lavoratori come cittadini. E questa è stata anche la trasformazione del PCI in Italia, anche se il suo discorso sui diritti spesso non proveniva dal liberalismo classico dell’individualismo, ma dal freudo-marxismo dei bisogni.

La terza rivoluzione industriale globale ha disintegrato quel mondo, ha disconnesso i meccanismi della rappresentanza, ha separato politica, sinistra e sindacato. Non che mancassero le avvisaglie, gli studi, gli allarmi. Ma la storia delle organizzazioni è lenta, l’inerzia di uomini e nomenclature è la norma. Solo le catastrofi sono un autentico nuovo inizio. Per quanto riguarda post-comunisti e socialisti, la catastrofe è arrivata.
Da dove ripartire?

E’ possibile ripartire? Bisogna decidere da dove

Non da sé, non dalla propria storia, non dal proprio insediamento socio-elettorale. Occorre partire dal mondo così com’è oggi, dal mondo come è diventato, senza il nostro particolare contributo e, soprattutto, senza che ce ne accorgessimo. I crinali che esso presenta definiscono sinistra/destra, lo vogliamo o no, quali che siano le nostre nobili tradizioni.
Il primo e costante dilemma che esso propone è quello tra pace e guerra, tra ordine e disordine e, pertanto, tra governo multilaterale mondiale o governi nazionali in competizione/conflitto. Diversamente dall’età dell’imperialismo, c’è più di un convitato di pietra al tavolo delle potenze mondiali: sono le potenze economico-finanziarie mondiali autonome dagli Stati. Per loro le frontiere politiche degli stati sono fragili come ragnatele. Le loro azioni generano concentrazioni di ricchezze, innescano diseguaglianze crescenti, ipermobilità di merci e di uomini, sconvolgono permanentemente il mondo, ne consumano l’habitat.
Hanno generato un’economia-mondo, di cui gli Stati stanno diventando appendici. Pertanto il primo compito è globalizzare la politica, costruendo istituzioni globali per il controllo delle potenze animali del capitalismo finanziario. Gli Stati Uniti d’Europa restano per noi europei il passaggio obbligato.
Il secondo dilemma è sviluppo/declino. Si tratta di rappresentare le forze produttive, nel contesto in cui queste si riconducono e si riannodano tutte quante attorno alla forza produttiva umana e i rapporti di produzione sono sempre meno privati, sempre più “pubblici”, sempre più cooperativi. La retorica della rappresentanza dei lavoratori non risponde alla complessità della produzione, alla molteplicità dei soggetti che ne sono protagonisti. Fare impresa, cioè sviluppare le forze produttive, è di sinistra! Rappresentare gli imprenditori è di sinistra! Connettere l’economia nazionale alle correnti mondiali dello sviluppo e dei traffici è di sinistra!
Il terzo è democrazia governante/democrazia corporativa. Corporativo è quell’assetto istituzionale della democrazia che registra pulsioni, opinioni, senza trasformarle in decisioni di governo. Le lascia marcire su di sé, nella lotta di ogni corporazione contro ogni altra. Una democrazia rapida e decidente è il miglior antidoto contro il ricorrente bisogno di uomo forte, quale ultima istanza, se le corporazioni si bloccano a vicenda nell’impotenza.

Una nuova filosofia, una nuova etica

Questi dilemmi non nascono dal passato, non sono formulabili concretamente all’interno del linguaggio tradizionale della sinistra. Essi sono il presente storico.
Per affrontarli, occorrono due condizioni:
a)         che la sinistra disponga di una nuova antropologia filosofica, che non è più quella dei soggetti collettivi e neppure quella dell’individuo disperso nella globalizzazione. Né homo-deus né homo-natura. E’ l’idea dell’uomo-persona, dell’individuo attraversato dal suono dell’altro, dalla prossimità dell’altro, dalla responsabilità verso l’altro. E’ l’umanesimo cristiano-liberale.
b)         che la sinistra dismetta l’ottimismo fatuo e vanaglorioso circa il futuro del Paese. Deve raccontare al Paese e ai giovani l’Italia reale: una società civile dalla spina dorsale etica debolissima, chiusa nel proprio particolare, soffocata dalle corporazioni, dai privilegi e dalla corruzione. Il Paese è in declino, il benessere dei nonni e dei genitori non sarà trasmesso ai figli, l’assistenzialismo ha i giorni contati, perché altri Paesi e altri popoli stanno chiedendo di partecipare alla divisione della ricchezza globale.
Non ci sarà ripartenza senza uno slancio etico, pre-politico, di assunzione di responsabilità, senza spirito di sacrificio, senza prossimità.