Il futuro secondo Luca Goldoni: “Sogno un mondo in cui le relazioni vere tornino al primo posto”

“Cosa farò da piccolo” (Mondadori 2018, Collana “Vivavoce”, pp. 192, 19,00 euro), con il sottotitolo “Il futuro alla mia età”, è il nuovo libro di Luca Goldoni, nato a Parma il 23 febbraio 1928. Giornalista e scrittore, Goldoni è opinionista del “Corriere della Sera” e tiene una rubrica settimanale su “Il Resto del Carlino”, “La Nazione”, “Il Giorno”, e sul settimanale “Oggi”. Nel libro dedicato “A mia moglie Franca”, l’autore, che nella sua carriera è stato cronista di nera, poi inviato di guerra, infine critico di costume, traccia un divertente e crudele ritratto dell’Italia di oggi confrontandola con quella di ieri. In pratica l’infanzia del novantenne autore e la sua piena maturità. Ricordi, aneddoti ironici che fanno sorridere e riflettere.

Abbiamo intervistato Luca Goldoni sul passato, sul presente e sul futuro che attende tutti noi. «Capisco che ho novant’anni, perché ho la memoria piena come quella dei PC, che se lampeggia vuol dire che è piena. Dovrei brevettare una lampadina da mettere in testa, se lampeggia sta a significare che la mia memoria in quel momento è piena. Quindi non fatemi domande!» ci dice subito Goldoni. Ma l’occasione dell’uscita del libro, perfetto da leggere in questo scorcio dell’anno e in previsione di quello che verrà, è troppo ghiotta per lasciarcela sfuggire. Goldoni ha sì novant’anni, e lungo il corso dell’intervista lo ripete sovente, ma possiede la giocosità, lo stupore e l’empatia di un bambino.

Se dovesse descrivere in poche parole la sua infanzia e giovinezza, da dove inizierebbe, dal ricordo di una canzone, da una sensazione simil proustiana o da un libro prediletto? 

«Dopo averci riflettuto un attimo, perché ha citato tre belle cose che in momenti diversi della mia vita hanno influito sulla mia formazione, scelgo i ricordi proustiani. “Le Madeleine de Proust” sono memorie involontarie, senti un sapore e zac, ecco affacciarsi un ricordo, una sensazione. Una volta ho sentito in un flacone vuoto che avevo aperto, un profumo lieve di colonia che usava la mia mamma. Non vado mai a trovare mia madre al cimitero, vado sempre a trovarla in una piccola chiesa di Milano Marittima, dove trascorreva per un mese l’anno le sue vacanze. Questa chiesa è famosa, perché dietro l’abside ha una grande vetrata che da su di una pineta, c’è la croce di Cristo sullo sfondo di questa bellissima pineta verde. Vado sempre sul terzo banco a destra dove si sedeva per consuetudine mia madre e lì la ritrovo, ritrovo il suo profumo, la sua voce, tutte quelle cose che in un cimitero non ritrovo. Sono abituato ad andare al cimitero fin da quando ero piccolo, mio padre morì quando avevo cinque anni a causa di una meningite fulminante, allora non esistevano i farmaci per combattere questa malattia. Per me il 2 novembre, giorno dedicato alla commemorazione dei defunti è terribile, andavo da Parma a Modena dove è sepolto il mio papà, ricordo che dovevo fare questo dovere, un dovere “cupo”. Già osservare dal finestrino del treno i padiglioni del cimitero di Modena mi rattristava. Invece con mia madre ho risolto il problema, come le ho detto prima, vado a trovarla in chiesa».

Nel libro racconta che “degrada le reliquie”. Che cosa vuol dire? 

«I miei cassetti sono pieni di cianfrusaglie che non ho il coraggio di eliminare, perché ognuna di loro mi ricorda qualche cosa, però se vado avanti così dovrò cambiare casa per lasciarla ai miei souvenir… Allora ecco l’idea di degradare questi ricordi. Cosa vuol dire “degradare”? È semplice: ne raccolgo un po’, li metto in una grande scatola di cartone e li porto in garage. Dopo quattro mesi mi accorgo che sono ancora lì ma in questo modo mi rendo conto che posso vivere benissimo senza queste cose, che non sono indispensabili per la mia sopravvivenza. Non riesco a eliminare questi ricordi tutti in una volta, è troppo doloroso, invece un po’ alla volta, la pratica risulta indolore».

Il recente Rapporto Censis ha stabilito che per la prima volta nel nostro Paese ci sono più ottantenni che nuovi nati e siamo gli unici in Europa. Secondo Lei, lo Stato tutela il benessere e, perché no, il futuro di questo esercito di anziani? 

«Non saprei, posso dire che a Bologna, dove vivo, si sono susseguiti alcuni sindaci che hanno avuto molte idee a favore della popolazione anziana della città. Rammento un anno che per festeggiare gli anziani, per un’intera giornata fummo tutti invitati nella caserma dei vigili del fuoco. Che meraviglia osservare i loro automezzi rossi cromati, non dimentichiamo che uno dei primi giocattoli dell’infanzia è la macchinina dei pompieri. Sono andato in caserma e ho detto loro: “Mi piacerebbe fare un salto nel telone”. Non potei farlo, perché prima avrei dovuto fare una serie di esami clinici, allora mi sono dovuto accontentare di vedere i vigili del fuoco venire giù dalla pertica. Una volta sono riuscito ad andare con i pompieri seduto in cabina mentre andavano a sirene spiegate per la città, un ricordo incancellabile!».

Che cosa rammenta maggiormente del suo passato di giornalista?

«Sicuramente quando ero inviato di guerra. La guerra è una cosa tremenda che tira fuori i sentimenti più autentici: il coraggio, la paura, la vigliaccheria, la generosità, la lealtà e la solidarietà. Ecco, tutte queste sensazioni le ho provate in guerra contemporaneamente capendo cosa nella vita sia superfluo e cosa sia invece indispensabile».

È un umorista di razza, perché nei suoi scritti da sempre prende in giro i comportamenti degli italiani con sagacia e bonomia. Come considera questa passione smodata dei nostri connazionali per il cellulare che in pratica ha stravolto il caro galateo di una volta? 

«Non sono un sociologo, ma voglio raccontare un episodio che riassume brevemente la situazione. Una volta ero riuscito ad ottenere un’intervista con un grosso personaggio. Vado da lui, mi riceve e mi fa accomodare. Inizio l’intervista ponendogli la prima domanda, incomincia a rispondere quando all’improvviso si porta una mano al petto. Mi preoccupo immediatamente, perché penso a un attacco cardiaco. Invece no, falso allarme, per fortuna, è solo il suo cellulare che vibra educatamente. “Porti pazienza un attimo… rispondo”. “Pronto? Ora non posso parlare, mi stanno intervistando, richiamami tra un quarto d’ora”. “Mi scusi, ricominciamo”. Dopo un po’ ecco che il personaggio si porta di nuovo la mano al petto, ma io sono tranquillo, ormai ho capito che non si tratta di un attacco di cuore. Lui alza gli occhi al cielo e mi fa: “ Mi scusi di nuovo”. Risponde al cellulare e da ciò che dice capisco che sta parlando con sua moglie. “Taglia corto, sono alle prese con un’intervista!”. Chiude il cellulare e mi dice: “Mi scusi! Era mia moglie, dove eravamo rimasti?”. Spiego al personaggio a che punto eravamo rimasti e andiamo avanti ancora un po’, quando squilla il telefono fisso, lui alza gli occhi al cielo per la terza volta e risponde dopo essersi scusato con me. Mentre lui è impegnato nella conversazione telefonica io mi alzo piano piano e raggiungo la porta da cui sono entrato. Lui allora si accorge dei miei movimenti e mi chiede: “Ma dove sta andando?”. Rispondo lapidario: “Vado fuori e le telefono!”. Ho raccontato questo episodio da me realmente vissuto per dimostrare che ormai nella nostra società l’interlocutore lontano ha la precedenza su quello vicino, che sta lì in carne e ossa, incredibile ma vero. Sogno un mondo dove una persona interrompe una chiamata dal cellulare dicendo: “Scusa, ho incontrato un amico, ora mi voglio dedicare a lui”. Ora invece è tutto il contrario!».

Alla luce del passato, delle sue esperienze, qual è la sua personale visione del futuro… 

«Ho una visione particolare, per esempio, quando leggo una cosa che entrerà in funzione tra cinque anni, non la leggo, ho novant’anni e sono già oltre i limiti. Per quanto riguarda gli altri, mio figlio e i miei nipoti, beh, mi si spezza il cuore, andranno incontro a un mondo che sarà sempre più invivibile. Io mi considero una persona normale, sono gli altri che sono anormali, perché non è normale mettersi in coda tutta la notte per aspettare che il megastore apra la mattina dopo, alle 9, per acquistare l’ultimo, inutile, modello di cellulare».

E il futuro del nostro Paese in un momento particolare come quello che stiamo vivendo? 

«Sono un pessimista con una grande voglia di tornare ottimista, mi considero un patriota anche perché quando ascolto “La leggenda del Piave” mi commuovo sempre, perché mi ricorda la mia infanzia. Quindi questa nostra Italia che sta andando a ramengo mi mette un gran freddo nel cuore. Il mio ottimismo non è quello della ragione, dunque, ma quello della volontà. La ragione mi porta ad essere pessimista ma prevale la voglia di voler bene a questo Paese che va dalla Sicilia alle Dolomiti».