Il “ritorno” di Battisti, e quello che insegna la sceneggiata di Salvini e Bonafede

Che l’arrivo di Cesare Battisti in Italia abbia fornito a esponenti del governo – in primis, a Matteo Salvini – l’occasione per una sgangherata pièce da avanspettacolo è, ahinoi, solo la penultima controprova della minaccia, che parte dall’interno dell’attuale classe politica dirigente alle istituzioni, al diritto, alla moralità pubblica del Paese.

Il (non) ragionamento di Salvini e l'(in)utile idiozia di Bonafede

Penultima, perché si è ormai abituati ad aspettarne una prossima peggiore. Anche se, nonostante follower entusiasti, non pare che questa tristallegra sguaiatezza abbia fatto impennare la curva del consenso. Tuttavia un effetto lo provoca: appiattire l’intera tragica storia del partito armato degli anni ’70 e ’80 in Italia sul tema della sicurezza e su quello scottante dell’immigrazione. Con ciò il sillogismo del messaggio è tutt’altro che subliminale: il terrorismo minaccia la nostra personale sicurezza; il terrorismo è di sinistra; ne consegue che la sinistra o minaccia alla nostra sicurezza – con l’apertura indiscriminata agli immigrati – o è incapace di sicurezza.

In questa occasione il M5S, perfettamente rappresentato dal Ministro Bonafede, è riuscito ad interpretare ambedue le parti in commedia: quella del turiferario e quella dell’(in)utile idiota. Tuttavia la “logica minor”, anzi infima, di Salvini continua a fare breccia tra gli elettori. Il che dipende, più che dalla forza intrinseca degli argomenti, dall’ignoranza della storia contemporanea di intere fasce generazionali, nate attorno all’anno fatidico ’68.

In parole povere, le persone sotto i 50/55 anni hanno sentito, forse in famiglia, accenni più o meno precisi agli “anni di piombo”, il cui marchio Margarethe von Trotta aveva scolpito nella pietra come “Die bleierne Zeit (il “tempo di piombo”), film del 1981, che vinse il Leone d’oro alla Mostra di Venezia. A scuola ne hanno sentito ancor meno. La storia contemporanea è esclusa dal percorso educativo, salvo lodevoli eccezioni. La motivazione ideologica ufficiosa è che il presente è troppo vicino, perché si possa neutralmente filtrare, eliminando le scorie della politica contingente.

La causa effettiva è del tutto interna alla filosofia egemone nella programmazione scolastico-didattica: avendo adottato quale metodo generale di approccio quello dello storicismo crociano – la storia come storia del presente – in realtà lo si rovescia, seguendo puramente il filo diacronico degli eventi, così che all’oggi filosofico, letterario, evenemenziale, politico non si arriva quasi mai. Che nell’Italia degli anni ’70 si sia svolta una piccola e sanguinosa guerra civile a bassa intensità – con ferimenti, attentati omicidi, stragi – sfugge ormai alla memoria storica e civile di almeno metà della popolazione italiana.

Questa frattura della memoria delle generazioni, che spezza in due il nostro ‘900 – la prima parte forse più conosciuta, la seconda vuota – è la base spirituale più profonda della frattura politica attuale del Paese. Quando questo accade, un popolo è condannato a ripetere gli errori delle generazioni che lo hanno preceduto, coltivando l’illusione fatale di costruire qualcosa di nuovo e per sempre. E’ l’illusione escatologica del “Tausendjähriges Reich”, il Reich dei Mille anni. Benché sia evidente che la Repubblica italiana non riuscirà a diventare un Reich autarchico nazionalista e che l’attuale governo ha i mesi contati, la mutilazione della memoria accumula effetti culturali di lungo periodo e risultati politico-elettorali decisivi, ancorché contingenti, in vista delle cruciali elezioni europee 2019.

Ciò che Salvini e Bonafede non vogliono ricordare

Che cosa viene espunto esattamente dalla memoria nell’operazione propagandistica Salvini-Bonafede? Che il terrorismo degli anni ’70 fu praticato dalla sinistra armata, dalla destra armata, spesso appoggiate da servizi segreti nazionali e internazionali(?) e dalla mafia. Che queste forze affondavano le radici in ambienti sociali e culturali, che hanno fornito in gradi diversi appoggi e complicità, dalle fabbriche alle Università, ai giornali, ad alcuni territori del Sud. Che la democrazia italiana non è mai stata culturalmente del tutto introiettata dagli Italiani ed è perciò fragile ed esposta ai venti del mondo. Che l’Italia, dopo la rovinosa sconfitta della Seconda guerra mondiale, e il Trattato di pace del 1947 a Parigi, è sempre stata un Paese a sovranità limitata e terra percorsa da truppe di ventura di varia origine.

In particolare, che era attraversata dalla cortina di ferro, benché questa geograficamente passasse più in là, da Stettino a Trieste, come sottolineò a ragion veduta Churchill, avendola lui stesso personalmente tracciata a matita insieme a Stalin. Le motivazioni ideologiche, che si agitavano dietro i gruppi armati di sinistra e di destra, erano opposte, ma convergevano su un punto: che la democrazia liberale era il nemico da abbattere o, comunque, un amico da non difendere a tutti i costi.

Limitandomi qui alla sinistra, viene in mente l’italianissimo slogan, coniato ahinoi! da Leonardo Sciascia: “Né con lo Stato né con le BR”. O quello dei “compagni che sbagliano”. Solo Pannella parlò di “compagni assassini”. Anche Rossana Rossanda mise in luce le permanenti ambiguità del giudizio del PCI sulle Brigate “sedicenti” rosse o “fascisti rossi”, invitandolo a considerarle, viceversa, quali presenze storiche dentro il comune album di famiglia. C’era molta distanza tra le BR e il partigianesimo, che aveva interpretato la Resistenza come episodio di una finale e vittoriosa lotta di classe“ e la “rassegnazione” realistica di Togliatti alla democrazia liberale come un tradimento della Resistenza?

Tuttavia la stessa Rossanda teorizzò a lungo “la maturità del comunismo”, che pure costituiva la base teorica di Autonomia operaia, del Movimento del ‘77 e dei sette principali gruppi armati di sinistra, tra cui Prima Linea. Se il comunismo è maturo, allora si può/si deve usare il forcipe della lotta armata per affrettarne l’avvento. Maieutica dura, ma necessaria. Sì, l’ideologia della lotta armata assai ben radicata. Anche l’ultimo ciclo di questa “lotta”, che ha assassinato i giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e che ha assunto il volto del “terrorismo corporativo” era nato/radicato in ambienti ministeriali, per difendere posizioni all’interno del pubblico impiego.

Salvini e l’attacco alla democrazia liberale

Forse Salvini non conosce queste storie, non avendole per nulla studiate a scuola e neppure al Leoncavallo. Sarà per questa ragione che ripropone e pratica l’attacco alla democrazia liberale e al “galateo” istituzionale, che ne è la conseguenza. E forse per questo che torna sempre di continuo alla concezione e alla pratica della lotta politica come scontro con un nemico.

Non è originale, perché fin dall’inizio della sedicente “seconda” Repubblica” la destra e la sinistra hanno teorizzato e praticato la filosofia di Carl Schmitt dell’hostis (il nemico) piuttosto che dell’inimicus (l’avversario).  E forse è per questo che insegue l’autarchia, perseguendo la penosa illusione che la sovranità nazionale si possa ricostituire su basi “nazionali”. Ben altra la lezione del milanese Carlo Cattaneo, che dopo aver messo in sequenza “il federalismo delle intelligenze” – le menti associate – con il federalismo tra gli Stati italiani, scrisse: “Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa”.