Papa Francesco: «Non si può pregare come i pappagalli: o entri nel mistero o non preghi»

“Non si può pregare come i pappagalli: o entri nel mistero, consapevole che Dio è tuo padre, o non preghi”. Il Papa ha cominciato con queste parole a braccio l’udienza di oggi, che “si sviluppa in due posti”, ha ricordato: “Ho fatto un incontro con i fedeli di Benevento, che erano nella basilica di San Pietro, e adesso con voi. È dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia, non voleva che voi prendeste freddo”. “Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio”, ha spiegato Francesco continuando il ciclo di catechesi sul Padre Nostro: “Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura ‘raffinarle’, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica: ‘La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio’”. “Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno”, ha osservato il Papa: “Come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità”. “Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte”, l’esempio citato a braccio da Francesco: “Questo lo vediamo tutti i giorni. Tutti abbiamo radici amare dentro che non sono buone, e a volte escono e fanno del male”. Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre” – il consiglio del Papa – “mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. L’amore di Dio è quello del Padre ‘che è nei cieli’, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta”. “Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore”, la tesi di Francesco: “Cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore”. “Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo!”, ha esclamato il Papa: “Tanti”.
“Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone”. Lo ha detto il Papa, che nella catechesi dell’udienza di oggi ha citato anche il Simposio di Platone. “La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori”, ha ricordato Francesco a proposito della “natura ambivalente dell’amore umano”: “È vero, è ambivalente – ha commentato – capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via”. Dalla citazione di Platone il Papa è passato alla citazione di un’espressione del profeta Osea, che “inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore”: “Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce”. “Ecco che cos’è spesso il nostro amore”, ha commentato Francesco: “Una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte”. “Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente”, l’analisi del Papa, che ha aggiunto a braccio: “Tutti ne abbiamo l’esperienza. Abbiamo amato e poi è caduto quell’amore, o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare”. “In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire”, ha sottolineato Francesco: “L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù: sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore”.
Oltre all’amore umano, “esiste un altro amore”, quello del Padre “che è nei cieli”, e “nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore”. Lo ha garantito il Papa, che nella catechesi dell’udienza di oggi, a braccio, ha ricordato che Dio “ci ama, mi ama, possiamo dire”. “Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato – un’ipotesi storica – c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare”, ha affermato Francesco per spiegare che “l’amore di Dio è costante, sempre”. Poi la citazione di Isaia: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. “Oggi è di moda il tatuaggio”, ha commentato a braccio il Papa: “sulle palme delle tue mani ti ho disegnato, ti ho fatto un tatuaggio nelle mani, io sono nelle mani di Dio, e non posso toglierlo”. “L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che non può mai dimenticarsi di suo figlio”, ha proseguito Francesco ancora a braccio: “Questo è l’amore perfetto: così siamo amati da lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero, e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio”. “Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste”, il monito del Papa: “essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre”. La conversione di Sant’Agostino, per Francesco, “è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama”. L’espressione “nei cieli”, ha precisato il Papa, “non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore: un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, che sempre è nella mano. Basta dire ‘Padre Nostro che sei nei cieli’, e questo amore viene”. “Nessuno di noi è solo”, ha concluso Francesco: “Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te, e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te”.
Una preghiera speciale per il suo ministero. A chiederla, salutando i fedeli di lingua italiana al termine dell’udienza di oggi, è stato il Papa. “Venerdì prossimo celebreremo la festa della Cattedra di San Pietro Apostolo”, ha ricordato Francesco a proposito della festività liturgica del 22 febbraio: “Pregate per me e per il mio ministero, anche per Papa Benedetto, affinché confermi sempre e ovunque i fratelli nella fede”. Tra i presenti oggi in Aula Paolo VI, il Papa ha ricordato i fedeli provenienti da San Giorgio Lucano: “Volentieri benedirò l’effige della Madonna degli Angeli che si venera nel locale santuario”, ha detto Francesco, che ha salutato anche le famiglie del Reparto oncoematologia pediatrica dell’Ospedale di Ancona e gli studenti del master anticorruzione dell’Università di Roma Tor Vergata. Infine, un saluto speciale anche al gruppo del personale della Questura di Campobasso. “A voi di Campobasso – le parole a braccio del Papa – vorrei ricordare una curiosità storica. Io sono del Sud, vicino all’Antartide. Il primo cappellano che è andato in Antartide era un cittadino vostro, uno nato a Campobasso. Complimenti per questo onore!”.

Foto Marco Calvarese – Sir