Di primaria in primaria. A proposito di Nicola Zingaretti segretario del PD

Primarie 30 aprile 2017: votanti 1.816.000, Renzi conquista 1.257.000 voti, pari al 69%. Primarie 3 marzo 2019: votanti 1.800.000, Zingaretti conquista 1.260.000 voti, pari al 66,6%. Non ci sono state grandi fughe, non ci sono stati grandi ritorni. Queste le nude cifre, al netto del trionfalismo dei “b/analisti politici” di Repubblica e dintorni, che da anni tentano di etero-dirigere, con risultati alterni, il PCI-PDS-DS-PD.

Nonostante la guerriglia lacerante condotta dalla vecchia nomenklatura contro Matteo Renzi dopo le elezioni europee del 2014, dopo la sconfitta del referendum del 2016 e dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2017, il partito PD continua ad avere una base di militanza, in calo di iscritti, e di simpatia. Una base non proprio “in forma demografica” perfetta. Dall’analisi su un campione di 2.509 votanti, condotta da Candidate and Leader Selection (CLS) – uno standing group operante nell’ambito della Società Italiana di Scienza Politica, attivo da quasi 15 anni  nello studio delle elezioni primarie in Italia e in prospettiva comparata – risulta che ha votato dai 16 ai 34 anni il 15%; dai 35 anni ai 44 il 10%; dai 45 ai 54 il 13%; dai 55 ai 64 il 22%; dai 65% in avanti il 40%.

Sopra questa base del partito è impiantato lo stesso gruppo dirigente di prima. Le novità consistono, oggi, nella ricollocazione dei diversi pezzi del puzzle dirigente. Fallito – almeno per ora – il tentativo di Renzi di stortare in senso maggioritario e liberal-democratico l’asse cultural-politico del PD, costruendo un partito di centrosinistra, Zingaretti ha vinto coagulando attorno a sé tutta la vecchia nomenklatura interna ed esterna, sull’asse proporzionalistico e vetero-socialdemocratico, sul quale si era assestato, alla fine, il PCI-PDS-DS.

E’ lo schema delle alleanze con il centro: noi siamo la sinistra, senza nemici a sinistra, che fa alleanze con il centro già democristiano o moderato. La sinistra e il centro sono distinti, ma collegabili con un trattino. Il tentativo di togliere il trattino è costato a Renzi le accuse infamanti di essere estraneo alla sinistra. Accusa centrata, se la sinistra è quella del togliattismo-berlinguerismo storico, di cui D’Alema resta il rappresentante più lucido e accanito.

La “vecchia” lettura di Renzi e la “nuova” di Zingaretti

Alle spalle di Renzi e di Zingaretti – presi qui come ideal-tipi – sta una diversa lettura degli orientamenti culturali e politici dell’opinione pubblica. Secondo Renzi, i mutamenti della condizione politica mondiale ed europea, dovuti a globalizzazione, informatizzazione, socia-media, hanno generato un crinale nuovo nell’opinione pubblica: tra chi vuole includere e chi vuole escludere, tra chi apre e chi chiude, tra chi vuole governare i processi di globalizzazione e chi li respinge… Insomma: non più il bipolarismo sinistra/destra. La prima è la posizione liberale, la seconda è quella nazionalista. Attorno a questo clivage si decide il futuro dei singoli Paesi e dell’Europa.

La prima conseguenza è quella di un nuovo assetto delle istituzioni rappresentative e di governo e di partito. Se le istituzioni della Costituzione del ’48 – quelle della Prima repubblica –  furono disegnate sotto la pressione cogente  della nuova geopolitica mondiale e degli sconvolgimenti che essa che essa generava nella testa di milioni di Italiani, così oggi, nel mezzo di un nuovo ordine/disordine mondiale servono nuove istituzioni di rappresentanza e di governo. Di qui le proposte del referendum del 4 dicembre 2016, che andavano verso una semplificazione/snellimento degli istituti di rappresentanza e verso un governo-istituzione forte, cioè stabile e capace di decidere in tempi brevi. Il partito si modellava dal punto di vista sociale e programmatico e dal punto di vista delle regole interne per rispondere alla sfida del bipolarismo culturale e politico di tipo nuovo. Donde l’idea del “partito della nazione”. Di qui la coincidenza tra segretario di partito e capo del governo/capo dell’opposizione.

L’ipotesi-Renzi è fallita per ragioni più volte analizzate su questo giornale, in parte dovute all’accanita opposizione interna, che ha reso il PD assai poco credibile, e in parte prevalente agli errori politici di Renzi.

E così oggi ha trionfato l’ipotesi-Zingaretti. Alla sua base sta una descrizione antica dei nuovi clivages delle società occidentali. Essa è debitrice della vulgata comunista e socialdemocratica novecentesca che descrive la società come articolata e divisa in classi sociali e relative collocazioni di sinistra radicale, sinistra moderata, centro, destra moderata, destra estrema. I lavoratori, i disoccupati, i poveri stanno naturaliter a sinistra, la piccola borghesia al centro, i proprietari dei mezzi di produzione stanno naturaliter a destra. Così ci sono partiti di sinistra, di centro, di destra.

E poiché sono scomparse sociologicamente le classi – benché ovviamente non lo siano affatto le differenze e le diseguaglianze sociali – allora la sinistra ha cercato di sostituire la classe operaia in due modi: a) con l’adozione di nuovi settori sociali, per es. i dipendenti pubblici – esiste anche il sindacato della FLC, cioè la Federazione dei lavoratori (sic!) della conoscenza – e i settori sociali più deboli ed emarginati, dagli LBGT agli immigrati; b) con la fondazione di una sinistra etica – pericolosamente confinante con il giustizialismo – dove l’interclassismo si riassorbe  dentro una tavola di valori comuni. Oggi è decisivo quello dell’antirazzismo.

Poiché la globalizzazione secerne sempre “nuovi ultimi”, è lì che deve pescare la sinistra, nelle sue varie articolazioni. Compito di una sinistra intelligente e non settaria è quella di fare alleanze con il centro e isolare la destra. Un sistema politico costruito sulla base di queste categorie è tanto più rappresentativo quanto più la legge elettorale sia proporzionale. E il governo? Si vede dopo, in base ad accordi ed alleanze. Una volta che i cittadini hanno votato la propria rappresentanza, poi i partiti se la vedono tra loro.

A questo punto anche il partito è quello socialdemocratico classico, con il suo segretario, abbracciato anche troppo strettamente dalla sua nomenklatura, molta della quale ormai sofferente della sindrome dell’eterno ritorno, che affligge Bouteflika.

Le (poche) possibilità del nuovo segretario PD

Se la montagna ha respinto l’assalto di Renzi, oggi ai suoi piedi ci riprova Zingaretti, con le sue corde sfilacciate e i suoi ramponi arrugginiti. Con quali chanches? Poche!

Perché ciò che avanza è un nuovo bipolarismo – facilitato da un declino del M5S – dove il polo di destra è radicale, populista e popolare, nazionalista, illiberale. Basterà contrapporvi un polo di una nuova sinistra sociale? E con quale cultura politica? Occorre un polo di sinistra di governo, liberale, europeista, federalista. Detto con vocabolario storico e ricorrendo ad uno stenogramma ideologico: un polo socialista-liberale o liberal-socialista o liberale di sinistra. La sinistra di tradizione comunista – alla D’Alema o alla Veltroni – lo considera solo un curioso ossimoro.

A quanto sembra, la sinistra italiana di provenienza comunista continua a soffrire di una discronia patologica. Quando doveva/poteva diventare socialdemocratica, dopo il 1989, scelse la via “democratica”. Ora, nell’anno 2019, la sinistra dovrebbe/potrebbe essere democratico-liberale, ritorna indietro sulla via socialdemocratica.