La nuova politica e i nuovi politici, orgogliosi di esseri ignoranti. Della storia e non solo

Dunque, secondo la nuova storiografia di Salvini, il 25 aprile è “un derby tra fascisti e comunisti”, cui lui non è interessato. Perciò il Ministro dell’Interno quel giorno andrà a Corleone per partecipare ad un evento-manifestazione contro la mafia. Come a dire: commemorare la Liberazione è un tic passatista, la battaglia contro la mafia è l’autentico impegno del presente. Insomma: tutto il vecchio mondo dell’antifascismo non sta più sui binari del presente. Dove per “antifascismo” si deve intendere tutta la vecchia élite dirigente, Bossi compreso. Siamo entrati o no nell’era dell’”a-fascismo”? Occorre ammettere che “l’antifascismo reale” offre da tempo più di una freccia all’arco degli “a-fascisti”.

Tanto per ricordare. La deriva dell’antifascismo

L’Associazione Nazionale Partigiani Italiani, in fatale e progressiva carenza di partigiani vivi, si è trasformata in un simil-partito, che raccoglie i resti della sinistra nostalgica, massimalista, radicale di varia provenienza.

Fondata il 6 giugno 1944 a Roma, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) fu costituita a Roma in piena guerra, nel giugno del 1944, da volontari ed ex militari che avevano preso parte alla guerra partigiana nelle regioni del Centro Italia. Al Nord la Resistenza era in piena attività, con le sue tre dimensioni fortemente intrecciate: guerra di liberazione nazionale, guerra civile e guerra di classe. Al 5 giugno del 1945, l’ANPI, divenuta Ente morale, raccolse la rappresentanza di tutte le formazioni combattenti. La cortina di ferro attraversò l’ANPI.

Così, nel 1948 se ne uscirono i cattolici con la Federazione Italiana Volontari della Libertà; nel 1949 se ne andarono anche i laici, azionisti e socialisti. L’ANPI divenne così un’emanazione del PCI, che fece della Resistenza un uso monopolistico e fonte di legittimazione per un ritorno al governo. Nuovo sangue normanno arrivò negli anni ’60 con i moti di Genova e Reggio Emilia contro il Governo Tambroni, ma soprattutto con i movimenti del ’68.

La strage di Piazza Fontana cambiò il volto dell’antifascismo: quello di origine comunista recuperò l’unità pre-‘48, in vista della futura unità nazionale; quello extra-parlamentare, in assonanza con i settori secchiani del PCI, accentuò il settarismo del ’48: “la Resistenza è rossa, non è democristiana!”. Se l’antifascismo autentico poteva essere solo comunista, l’anticomunismo democratico confinava pericolosamente con l’a-fascismo o era solo tiepidamente antifascista. L’ANPI è stata anti-craxiana, poi anti-berlusconiana – chi non ricorda la manifestazione di Milano del 25 aprile 1994? – poi anti-renziana – clamoroso l’invito a votare NO nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 – e, oggi, anti-Salvini.

Le minacce attuali del ritorno del fascismo e l’oblio della storia

In nome di cosa? Appunto, dell’antifascismo autentico. Nel corso dell’ultimo anno la minaccia del “ritorno del fascismo” è stato agitata nelle piazze, in risposta ai rigurgiti preoccupanti di antisemitismo, alle manifestazioni di neo-fascismo di Forza nuova e all’a-fascismo di Salvini e Di Maio. Ora, è vero che il fascismo e il nazismo hanno incorporato i movimenti nazionalisti e populisti, ma non perciò questi ultimi sono la strada obbligata verso il fascismo. In nazionalismo è stato anche democratico e, ancora oggi, il populismo è anche di sinistra. Intanto, l’effetto immediato di questo corto circuito della nuova ANPI è duplice: per un verso fa perdere alla più giovane opinione pubblica i connotati storici del fascismo reale, così che quasi tutto diventa fascismo; per l’altro, finisce per portare acqua al mulino nazional-populista di Salvini, visto che molti – per ora – elettori condividono la politica di Salvini, senza essere per nulla fascisti, antisemiti, razzisti. Dei toni e comportamenti grezzi e truci del suddetto tutto si può dire, ma non certo che si tratti di fascismo.
Ciò detto, la duplice e opposta riduzione – quella del 25 aprile a derby e quella del salvinismo a fascismo – è il segnale di un congedo dell’opinione pubblica e dei politici che la esprimono da una comprensione storica profonda delle vicende del Paese. Di qui l’uso tattico e contingente degli eventi.

Alla base del fatto, stanno due cause: l’ignoranza pura e semplice della storia del Paese da una parte, dall’altra l’ossessione di un cieco presente. Abbandonati i parametri epistemologici e culturali dello storicismo crociano e del gramscismo togliattiano, che avevano ispirato l’insegnamento della storia nelle Università e nelle scuole, una coltre sempre più pesante di polvere dell’oblio sta ricoprendo le ultime generazioni del nostro Paese.

Da dove viene la catastrofe della coscienza pubblica. La dittatura del presente

La responsabilità di questa catastrofe della coscienza pubblica viene generalmente attribuita all’irrompere della Rete, che ha reso immediatamente presente a tutti – più di 4 miliardi di persone stanno in Rete – il Presente, enorme, globale, onnipresente, un’estensione senza profondità. La dittatura del presente ha sottomesso le coscienze, gli elettori, la politica, i nuovi politici. Solo tattiche, poche strategie, nessuna visione, se non elettorale.

Non solo i Salvini, ma anche i Di Maio, i Renzi… Di qui le rapide ascese all’altare del potere e le rapide ricadute nella polvere. Ma l’irruzione della Rete è solo un alibi. Se la Rete dona una provvidenziale estensione alla coscienza, tocca alla Scuola darle l’intensione e la profondità. E lì, invece, che la Storia sta cadendo in disuso. E, quando è frequentata, accade ai nostri ragazzi di essere più informati sulle guerre puniche e sulla lotta per le investiture e sulle guerre risorgimentali, ma di non disporre della vaga idea di ciò che è accaduto dal 1945 al 2019. Se la prima metà del ‘900 è arrivata alla coscienza, la seconda è ferma sulla soglia. Qualcuno ne ha mai parlato nei Licei, dove quei “tre ragazzi” succitati hanno studiato? C’è da dubitarne! Eppure, senza quella conoscenza, è impossibile comprendere le tendenze profonde del Paese. Per tornare a Renzi, avrebbe rotto il Patto del Nazareno, se avesse assimilato culturalmente gli anni 1943-48 o, almeno quelli della Costituente? Avrebbe appiccicato insieme riforme costituzionali e legge elettorale? E si sarebbe decomposto con tanta rapidità? E molti cosiddetti “renziani” sarebbero scesi così in fretta dal suo treno, se le basi culturali del renzismo fossero state più fondate? E se Salvini conoscesse la storia della nostra politica mediterranea, in particolare verso la Libia, almeno da Gheddafi in avanti, sarebbe andato allo scontro frontale con la Francia, considerato che essa è da sempre il nostro competitor principale, insieme alla Gran Bretagna?

In mancanza di profondità storica, la politica interna ed estera è tutta giocata sul presente. Delle mutevoli opinioni sul presente i sondaggi danno un resoconto immediato, che serve alla politica, solo se intesa e praticata come un war game in vista di uno score. Pretendere che questa generazione politica dia un giudizio weltgeschichtlich degli eventi è forse ambizione da lasciare a Hegel, ma che guardi al Paese nella profondità e complessità della sua storia è la sola condizione perché il Paese non continui a scivolare sul clinamen del declino irreversibile.

Dei tanti errori che la generazione politica precedente ha compiuto, il più inescusabile è l’abbandono con cui ha lasciato la Scuola, relativamente all’insegnamento della Storia. Così si è innescato un meccanismo fatale: quello della produzione di ignoranza arrogante a mezzo di ignoranza orgogliosamente esibita. Salvini la chiama “buon senso”. Che è del tutto diverso dal principio di realtà.
Di qui il declino spirituale ed economico del Paese.