Parole per aprire i cancelli degli slogan. In dialogo con David Grossman

David Grossman, sessantacinque anni, è nato a Gerusalemme. È uno degli scrittori israeliani più conosciuti e amati al mondo. Autore di opere di narrativa per ragazzi, saggi, interventi giornalistici apprezzati e premiati a livello internazionale, ha esordito nel 1983 con “Il sorriso dell’agnello” ma è diventato un caso letterario nel 1988 grazie al successo di “Vedi alla voce: amore“, successo confermato nel 1992 da “Il libro della grammatica interiore“. Scrittura densa e incisiva, Grossman  ama ritrarre le varie sfaccettature dei sentimenti umani, quelle che chiama “nuances”. Insieme ad Amos Oz, recentemente scomparso, e Abraham Yehoshua, Grossman  ha fatto parte di quel trio letterario che negli ultimi decenni ha raccontato al mondo un paese complesso come Israele e ha rappresentato la coscienza civile del paese. Quando è venuto a Bergamo, lo abbiamo incontrato e abbiamo potuto dialogare con lui. Questo è il resoconto.

Leggendo la Bibbia ci si stupisce della frequenza con cui il verbo “ricordare vi ricorre”. Chi avesse la pazienza di cercare in una concordanza biblica alla voce zakhar (“ricordare” in ebraico) troverebbe decine di occorrenze. Se la memoria è così centrale è perché ogni ebreo ha il dovere religioso di ricordare. Ma c’è un’altra memoria che si è tragicamente imposta: quella della Shoah. Cosa vuol dire ricordare? E perché farlo?

Dobbiamo ricordare ma a volte l’atto di ricordare diventa un cliché: capita, cioè, di dire parole senza percepire realmente l’essenza di quello che rappresentano. Lo stesso può avvenire quando noi pronunciamo la parola Shoah. C’è il rischio che possa diventare un simbolo vuoto. Per questo l’atto di ricordare non basta, per capire dobbiamo tentare di immaginare noi stessi in quella situazione, mettersi nei panni degli altri, pensare come avremmo agito se vittime, e anche se saremmo stati carnefici. Questo è l’unico modo di sciogliere il dilemma, nella durezza della vita quotidiana, nella paura e nella disperazione della vita umana, la soluzione è sempre di metterci nei panni degli altri. Per celebrare e commemorare le vittime di quella tragedia ho scritto un libro, “Vedi alla voce amore”,  perché c’è stato un tempo nella mia vita nel quale ho capito che non avrei più saputo chi ero come ebreo, israeliano, scrittore, padre, uomo, se non avessi fatto i conti con la Shoah. Essere ebreo e israeliano non è sempre sovrapponibile, a volte le due identità sono persino in lotta. Eppure io non potrei rinunciare a nessuna.

Su Israele di oggi quanto pesa ancora la Shoah?

Vivo in un paese che è ancora oberato da questo profondissimo e pesante trauma. Settant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale – che per noi ha voluto dire la fine della Shoah –  tutta la nostra vita è ancora permeata da questa tragedia. Fili sottili, spesso invisibili, legano la Shoah al modo in cui educhiamo i nostri figli, a come gestiamo la politica, immaginiamo il nostro futuro. Ci restituiscono un senso fragile alla nostra esistenza: nessuno sa se noi riusciremo a sopravvivere al futuro. Questa è la vera ansia che permea oggi la vita in Israele e a volte questo può spiegare perché reagiamo in maniera esagerata qualunque sia il filo di minaccia che incombe su di noi.

Lei spesso non è tenero con le scelte del suo Governo…

Penso che si può esser d’accordo con certe critiche perché Israele dovrebbe correggere tante cose della sua tattica. Ma dico spesso agli israeliani: non bisogna guardare a cosa dicono di noi, ma solo se noi agiamo secondo i nostri valori. Diversamente sarebbe pericoloso. Però sento importante dirle una cosa.

Cioè?

Da quando sono in Italia sento spesso fare un raffronto  tra la shoah e quello che ha fatto Israele nella striscia di Gaza. Secondo me questo paragone è scandaloso. Lei sa che io sono molto critico con il mio Governo. Anche rispetto alle operazioni che portano all’invasione della Striscia di Gaza ho detto e scritto più volte che non avremmo dovuto utilizzare questo potere militare cosi estremamente eccessivo contro i civili. Però, per favore, non fate questo errore perché niente può essere raffrontato alla shoah  nel senso che gli ebrei sotto il Terzo Reich non avevano alcuna intenzione di conquistare la Germania  o di marciare su Berlino oppure di cancellare dalla faccia della terra i tedeschi. Nella dichiarazione di identità di Hamas c’è la chiara volontà di  spazzare via Israele. Noi abbiamo un conflitto profondo, molto amaro con i  palestinesi, non solo per i territori ma anche per altre questioni ma Israele non ha mai voluto eliminare i palestinesi e non ha un’ideologia razzista. Fare raffronti di quel genere banalizzano la shoah e non servono neppure alla causa dei palestinesi.

Continua a sostenere la necessità del dialogo. Questa posizione è condivisa in Israele?

So di essere parte di una minoranza. Nel mio Paese molta gente è terrorizzata e quando hai paura vuoi sconfiggere prima di dialogare. Io non sono d’accordo, la mia posizione è diversa, io non voglio sconfiggere. Voglio arrivare a una situazione per cui entrambe le parti si sentano abbastanza forti per potersi parlare e farsi reciprocamente concessioni dolorose ma necessarie. Sono parte di una minoranza, come i miei amici Oz e Yehoshua. D’altra parte, trent’anni fa le nostre parole erano considerate tradimento. Ora le stesse parole sono pronunciate da un primo ministro della destra. È stato un lungo processo, un lungo confronto – che continua – con la paura e il pregiudizio, ma alla fine penso che ce la faremo, perché le nostre idee portano verso la vita piuttosto che bloccarci nella pura sopravvivenza in attesa della catastrofe.

Crede che la soluzione al conflitto passi attraverso la via di due popoli in due Stati distinti  o nell’ipotesi che qualcuno sostiene di due popoli che convivono nello stesso Stato?

Se vivessimo in un mondo perfetto, le direi uno Stato con due popoli, uno Stato senza frontiere. Vivo in un mondo reale e devo guardare le cose in modo realistico. Per questo, sogno due Stati, palestinese e israeliano, dove i due popoli possano vivere la vita che meritano, con dignità e nella pace. Sogno uno Stato palestinese dove gli uomini investono  i talenti e le capacita in una società libera dove sia possibile far crescere i propri figli senza l’umiliazione dell’occupazione. Sogno che lo Stato di Israele sia uno Stato sovrano, sicuro, indipendente, capace di immaginare e non temere il proprio futuro.  Sogno due Stati che possono e devono vivere insieme, senza muri, con frontiere come in tutti i paesi del mondo che possono essere attraversate per motivi commerciali e turistici, un libero movimento di merci e di persone.

In che modo ritiene che la letteratura possa costruire ponti e non muri tra persone, culture e religioni diverse?

Gli scrittori pensano di poter contribuire a cambiare il mondo più di quanto in effetti avvenga in realtà. Se le parole bastassero, il mondo sarebbe molto meglio di com’è. Eppure, io credo che molto lentamente le parole si scavino una strada, liberino i cuori perché danno nuove formulazioni ai pensieri, aprono i cancelli degli slogan che rinchiudono la gente nel pregiudizio, nei comportamenti obbligati: dobbiamo uccidere o essere uccisi. Le parole sono idee e come un processo educativo riescono in qualche modo a cambiare la gente perché sono nuove formulazioni. Le parole integre mostrano che anche tra i nemici ci sono diverse sfumature, che uscire dai cliché del governo e della stampa ci fa sentire tutti meno vittime e ci permette di prendere in considerazione altri possibili comportamenti. Israele è il Paese più forte del Medio Oriente, l’abbiamo costruito così proprio per non essere più vittime. Abbiamo armi e carri armati. Eppure ci sentiamo ancora vittime del passato, della storia. Ma anche vittime degli errori dei palestinesi, che hanno le loro responsabilità per la tragedia nella quale siamo rinchiusi: li tratterei da bambini e non da adulti pensanti se li scusassi. Li rispetto troppo per fare questo. Eppure non possiamo fossilizzarci nelle nostre pur legittime narrazioni di vittime, perché questo ci impedisce di uscire dalla trappola. E gli scrittori servono a questo, a intrecciare le narrazioni, perché vengano poi le azioni.

Come si vive oggi in Israele?

Troppo spesso nella proiezione dei nostri incubi, per colpa della paura, del sospetto, del dolore, della rivendicazione dei traumi  del passato. Non è il modo con cui persone normali collaborano.
Abbiamo bisogno di qualcuno che dia a noi una visione di ‘cosa’ la pace possa portare  alla gente perché due popoli paralizzati devono credere che c’è una alternativa, e invece credono solo di doversi ammazzare. La violenza ha un suo meccanismo che sta nella distorsione della mente di due popoli. Odio, violenza e brutalità impediscono al popolo di agire nel modo giusto. Stando qua si può pensare che è facile fermarla, anch’io quando vengo in Italia penso “perché non reagiscono in modo logico”? È tutto così semplice! Ma quando la gente vive nel campo magnetico di odio e violenza, agisce diversamente, anche contro il proprio interesse. Ecco perché dico che abbiamo bisogno di una visione. Dobbiamo conoscere il meccanismo per neutralizzarlo.

Ritiene che la guerra tra israeliani e palestinesi non si può vincere?

Sì, non può essere vinta da qualcuno o da una parte sola. Non esistono vincitori, deve essere chiaro ad entrambi. Dovrebbe essere una collaborazione fra perdenti, fra popoli cioè: israeliani palestinesi, siriani. Dopo quasi cento anni abbiamo messo così tanto sangue, soldi, creatività e risorse umane nella distruzione che siamo già tutti sconfitti. Così persino se la pace arrivasse domani potrebbe essere anche già troppo tardi per noi, perché una grande parte della nostra anima è stata distrutta dalla paura e dalla violenza. Ci vorranno generazioni per curarsi da quello che abbiamo sperimentato.

In suo romanzo (“Ad un cerbiatto somiglia il mio amore”) lei ricorda suo figlio Uri morto in Libano nel 2006 durante una missione militare. In che modo la scrittura ha aiutato lei a trovare una ragione in questa tragedia?

Per me scrivere significa sempre creare un luogo in cui poter vivere. Tornare a scrivere mi ha permesso di ritrovare il mio posto, anzi un nuovo posto dopo quanto successo, un luogo dove la vita aveva ancora un senso, un gusto. E dove anche il dolore poteva avere un senso.