Dal prete tuttofare al prete compagno di viaggio

Foto: oratorio di Grumello. Festa di fine CRE

Don, ma perché non parli tu al microfono al CRE? Perché non gestisci tu la riunione animatori e intervieni solo su alcune questioni? Perché lasci che a volte facciano la preghiera gli altri e tu dai solo la benedizione?”.

Io, prete, non faccio tutto. Non posso e non voglio

Sono domande che mi sono state rivolte durante i CRE, alle quali andrebbero aggiunte le molte domande che mi vengono rivolte durante tutte le attività che caratterizzano la vita parrocchiale dell’anno pastorale. La mia risposta, semplice ma non banale, è questa: “Perché sapete farlo, quindi potete farlo. E, forse, dovete farlo”.

Chiarisco subito un aspetto fondamentale: non ho un concetto ieratico del ministero sacerdotale, come se al prete spettassero solo le cose sacre e non lo sporcarsi le mani nella vita dell’uomo (non è sacra in quanto dono di Dio anche quella?). Questo andrebbe contro la fede, perché l’Incarnazione dice di un Dio che si è fatto carne, è entrato nelle pieghe e nelle piaghe nella storia. Pertanto, non sono tra quelli che ritengono che il prete debba dire Messa, pregare il breviario e fare solo quanto attiene la liturgia e i sacramenti (che in fondo, senza la vita, verrebbero svuotati di significato, perché non si vivrebbe quanto si celebra), così che tutto il resto andrebbe delegato ad altri. No, questo no.

Tuttavia, nello stesso tempo sostengo che la Chiesa sia ancora troppo affetta di “clerocentrismo”. È l’idea per la quale il prete dovrebbe essere dappertutto, fare tutto ed essere competente su tutto. Ecco, io credo che nemmeno questo sia positivo. Personalmente, mi sta a cuore l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II, quando indica la corresponsabilità tra clero e laici nella vita della Chiesa.

Il CRE, le vacanze estive. Laici protagonisti

Questa indicazione, che mi sembra di capire sarà di importanza vitale per il futuro delle nostre comunità, non si può improvvisare, ma necessita di un percorso serio, faticoso e condiviso. Io ci sto provando. La mia idea è che si debba lavorare insieme, sempre, e che ci siano cose che non necessariamente deve fare il sacerdote, anche se a lui spetta la guida della comunità, ad immagine di Cristo Buon Pastore.

Evito la teoria e mi riferisco ad esempi pratici. Io al CRE sono presente, ma se ho dei giovani coordinatori capaci (anche molto più di me) di gestire l’esperienza, di sollecitare gli animatori, di inventare attività nuove, non devo forse permetterglielo? Ho io da imparare da questi giovani! Certo, poi la fase di pensiero educativo che presiede all’esperienza, la fase di verifica e, in itinere, di monitoraggio, spetta a me in primis. Io passo per i laboratori, scambio qualche parola con gli animatori, ascolto i bambini e i volontari e, nel momento in cui ci sono decisioni da prendere, metto l’ultima parola, quella decisiva, perché quello è il mio compito e la responsabilità ultima di quanto accade in oratorio è mia.

Un altro paio di esempi: in uno dei miei oratori ho educatori bravissimi nell’organizzare la vacanza estiva degli adolescenti. Io lascio loro la massima libertà dando piena fiducia e limitandomi ad indicazioni previe sia a livello educativo che a livello gestionale/economico. Durante la vacanza, loro conducono l’esperienza e io sono con loro, intervenendo in ciò che mi spetta e decidendo quello che c’è da decidere soprattutto sugli interventi educativi da mettere in pista.

Lo stesso vale per le società sportive presenti negli oratori: ci sono persone bravissime e competenti. Cosa dovrei dire? Io sono in costante contatto con i collaboratori, con loro verifico che il progetto educativo venga attuato e lo statuto rispettato, ragioniamo sui ragazzi e sui loro problemi (da chi non può pagare, a chi manifesta segni di disagio, agli allenatori che hanno difficoltà ecc.), ma poi… sanno fare il loro mestiere e io mi fido di loro!

Il prete formatore dei formatori

Non credo ci sia altra possibilità per il futuro se non quella che il sacerdote sia colui che è presente nella forma del “formatore dei formatori”, come figura che accompagna senza schiacciare, che interviene senza umiliare, che favorisce la crescita di tutti.

Io la penso così: quando un prete lascia una comunità, non c’è soddisfazione più grande che lasciare al successore persone capaci di camminare con le loro gambe, nella fede e nella concretezza della cose da fare, che saranno di enorme aiuto a chi arriva come nuovo parroco o curato per un ministero pastorale che sarà sempre meno legato a una parrocchia e sempre più a un territorio.

Lo ribadisco: nelle nostre comunità c’è tanta gente che sa fare e può fare. E io sono felice di accompagnare questo fare gratuito, generoso e buono.