L’omelia della messa “funziona” male. Qualche timida ragione

L’omelia della messa resta una sfaticata. Per chi sta al di là delle balaustre – il celebrante – e per chi sta al di qua – i fedeli. Se ne è parlato nel convegno di Sotto il Monte, gestito da un gruppo animatore che si ritrova ogni anno, alla fine di luglio.
Perché l’omelia è difficile e perché, molte volte, riesce male e non “funziona”, non arriva a far passare qualcosa di positivo, di affascinante?

Colpa del prete. E colpa dell’omelia

Ci sono due scuole, almeno due, come sempre. C’è chi dice che la colpa è solo del prete e c’è chi dice che non è del prete, o non è solo del prete. Che il prete possa non essere all’altezza o, anche se è all’altezza, possa non prepararsi adeguatamente, è cosa ovvia. Per cui vale la pena chiedersi quali sono le altre ragioni, quelle che dipendono più dall’omelia che da chi la tiene.

L’omelia, in effetti, è difficile di suo. Ma perché? Bisogna fare un passo indietro e porsi la domanda semplice, banale: che cosa è l’omelia o, meglio, a che cosa deve mirare?

Anche nel convegno citato, si è ripetuto che cosa l’omelia non è. Non è una lezione di scuola, seppure di scuola di teologia, non è una spiegazione del testo biblico, non è un intrattenimento-esibizione del prete. Più complicato dire che cosa è.

Sommariamente si può dire che l’omelia è il punto cruciale e difficile di un passaggio: dalla Parola (quella con la “P” maiuscola, la Parola di Dio) alla vita della gente che partecipa alla messa. L’omelia, cioè, dovrebbe far parlare davvero la Parola.

Anzitutto dicendo cosa dice effettivamente (non lezione di teologia biblica, ma introduzione soft ai significati di una Parola, scritta comunque migliaia di anni fa) e poi che cosa dice, quella Parola, “ora”, “qui”, a questa gente che è entrata in chiesa e ascolta. Questa distanza fra gente di oggi e Parola di allora misura la difficoltà dell’omelia. In fondo nell’omelia si concentra la difficoltà del messaggio cristiano nel suo insieme che deve – dovrebbe – essere vivo ancora oggi, essere vivo dappertutto e per tutti.
Questo è un compito che non compete solo al prete, ma a tutta la comunità cristiana: mediare quello che è scritto, con quello che annuncia, quello che si annuncia con quello che si vive.

L’omelia e la solitudine del prete

Dell’omelia si potrebbe dire che, siccome è il prete che la tiene (ma è proprio scritto che deve essere solo il prete a tenerla? ci si è chiesti anche al convegno) il prete guadagna in capacità comunicativa se comunica con la sua gente anche fuori della messa e dell’omelia. Insomma il prete è fraterno quando parla se lo è anche quando non parla. Il prete clericale, chiuso nel suo mondo, non può trasmettere quello che fatica a vivere. Insomma l’omelia non efficace è la conseguenza diretta della solitudine del prete. Più il prete è fraterno e meglio parlerà nell’omelia della messa, anche se gli capiterà, qualche volta, di essere stanco e, qualche volta, di non fare a tempo a prepararsi.