Che l’uomo creda nell’uomo. Un dialogo con Moni Ovadia

Moni Ovadia è certamente uno degli attori più amati dal pubblico italiano. Nato in Bulgaria, nel 1946, si è trasferito da bambino, con la famiglia, di ascendenza ebraica sefardita, a Milano. Da molti anni Moni calca la scena dei teatri del nostro Paese con spettacoli e concerti. Alla grande levatura artistica unisce un’indomita passione civile e politica che lo vede spesso in prima fila nella lotta per i diritti, la pace e la giustizia. Un uomo di parte, dunque, appassionato e generoso, sempre in continua ricerca, anche dal punto di vista religioso.

Moni Ovadia non si definisce un ebreo credente, pur frequentando qualche volta la sinagoga,  perché, dice, “per il senso comune quest’espressione ha un valore troppo clericale, quasi definisse un uomo che possiede precise certezze su Dio e il senso della vita”. Piuttosto, concepisce la pratica religiosa come una riflessione esistenziale che trasforma la sopravvivenza in vita e permette la crescita dell’uomo. Ricorre in Moni Ovadia l’idea che come si prega si vive. L’ebraismo, sostiene, muove da una formidabile tensione etica che precede ogni confessione religiosa: essa è essenzialmente anti – idolatria, divieto di sottomettersi a dei feticci, compresi il potere, il denaro, la terra (atto di accusa che spesso fa allo stato di Israele),  in nome della stessa libertà dell’essere umano. Il precetto “Ama il prossimo tuo come te stesso” (che acutamente il filosofo contemporaneo Emmanuel Lévinas traduce: “Ama il prossimo tuo: è te stesso“) diviene per Moni il fondamento di una religiosità che invita alla fraternità, nella convinzione che “l’essenziale non è che l’uomo creda in Dio, quanto che creda nell’altro uomo (il che è assai più impegnativo)”.

Ebreo non credente, ti definisci. Non è un ossimoro?

Non credente ma profondamente legato alla Bibbia e al pensiero religioso, sono ferito dalla deriva idolatrica che perverte tutte e tre le grandi religioni monoteiste, riducendo il Dio ineffabile di tutti, che può essere solo continuamente cercato, a un dio tribale, pretendendo di far politica in suo nome, trasformando il Corano o la Torah in strumenti di potere, fomentando psicosi miracolistiche superstiziose che sono una parodia del cristianesimo. La religione produce intolleranza e tradisce così se stessa, dimenticando che il Corano dice “se Allah avesse voluto che tutti gli uomini fossero musulmani li avrebbe fatti musulmani e chi sei tu per imporre agli altri ciò che Allah non ha voluto imporre loro?”. Il Dio dell’ Antico Testamento ha detto “davanti a me siete tutti stranieri”, “la terra è mia” e “amerai lo straniero, perché lo sei stato anche tu”. Anche la civiltà ebraica rischia fortemente oggi l’ autodevastazione; se all’ ebraismo si toglie l’ universalismo, gli si toglie tutto. Per fortuna l’ ebraismo ha in sé il potente antidoto dell’ autocritica, dell’ autodelatoria ironia che si accusa, consapevole dell’ universale e dunque anche della propria bassezza umana. Solo così può salvare se stessa e il mondo. Se Cristo è salito sulla croce, il Cristo crocefisso dai popoli è stato, con la Shoah, l’ ebraismo.

Tu spesso sostieni che l’ebraismo non è una religione..

Sì, lo credo. L’ebraismo non è identificabile con la religione, che è un cascame, il culto è un concessione che Dio fa agli uomini, alla loro debolezza, alla loro fragilità, anche perché costruire un cammino etico senza regole è difficile. Il vero fulcro dell’ebraismo è invece la santità della vita. Non c’è mitzwot, ossia non c’è precetto, e nell’ebraismo sono oltre seicento, che tenga di fronte ad una vita in pericolo. Se una vita è in pericolo il precetto può essere trasgredito. Solo due precetti non possono esser trasgrediti: non uccidere e l’incesto. L’uomo libero, questo postula la Torah, e questa è la più grande e sconvolgente scoperta dell’ebraismo, e dalla libertà non può essere disgiunta la responsabilità.

Cosa è la preghiera per Moni Ovadia?

Una premessa: quando noi accogliamo il tu, l’altro, nella pienezza della sua dignità, Dio è presente  e non c’è bisogno di cercare altrove, non c’è bisogno di nient’altro. Questo è il messaggio principale di tutti i monoteismi, ciò che costituisce la fratellanza universale. “Non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” diceva  rabbi Hillel a un pagano che si voleva convertire all’ebraismo. E alla domanda : “Dimmi cos’è l’ebraismo nel tempo in cui riesco a stare su un piede solo”, rispondeva : “Non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, tutto il resto è solo un lungo commentario, ora vai e studia”. Insomma: “ama il prossimo tuo come te stesso” non è, come molti cristiani credono, Vangelo, ma è tratto dal libro del Levitico. Come “te stesso” significa con la pari dignità che riconosci a te. Ma Lévinas dà una traduzione radicale perché il verbo essere presente indicativo non c’è nella lingua santa della Torah. Allora la traduzione diventa : “Ama il prossimo tuo, è come te stesso “. Questo è il problema. Ora veniamo alla preghiera. Ci sono preghiere brevi, preghiere lunghe. Ci si potrebbe chiedere: perché gli ebrei ogni volta che devono mangiare, o bere, o fare qualsiasi altra cosa,  pregano?  Che cos’è in fondo quella preghiera che tu metti fra te e l’atto di sopravvivenza vitale? E’ una piccola riflessione etico-spirituale,  per trasformare la sopravvivenza in vita. Non è niente di straordinario. Con ogni preghiera tu celebri la tua condizione di essere umano, che è un essere capace di pensarsi, un essere capace di pensare l’etica, di porsi il problema. Allora la preghiera dovrebbe servire alla costruzione di un essere umano  alto, sottratto alle dinamiche della pura sopravvivenza che si basa sul principio di aggressività, di difesa del territorio. La preghiera dovrebbe rompere e superare tutto questo.

Vi è uno specifico della preghiera ebraica?

Secondo me l’ebraismo è un modo radicale, specifico e forse un po’ folle, di costruire l’essere umano nel santuario del tempo. Quando vado a vivere il sabato, lo “shabbat”, celebro il mio essere umano nella sua libertà, nella santità intesa come inviolabilità,  eguaglianza, pari dignità col mio prossimo e anche con il padrone dell’universo. Perché nell’ebraismo il monoteismo si basa su un patto che significa pari dignità. Lo “shabbat” è l’uscita dai ruoli, dall’alienazione: gli uomini diventano uguali. Lo “shabbat” è l’extratemporalità perché lo festeggi nel fuso in cui ti trovi, è extraterritorialità,  e questo la dice lunga sulla ripulsa del nazionalismo.

Io penso che la massima dimensione spirituale dell’ebraismo sia extraterritoriale. Ecco perché sono un saltimbanco. Allora io vado a celebrare nello “shabbat” la massima libertà dell’essere umano che a mio parere sia  mai stata concepita su questa terra. Infatti  non solo l’essere umano è sottratto all’alienazione attraverso il riposo sabbatico, ma anche l’animale non lavora, la  pianta non lavora, la zolla non lavora… potentissima indicazione ecologica!  Noi, Adam, discendiamo tutti da Adam, che è il nostro menoma comune. La Bibbia è stata molto più svelta degli scienziati, ha detto, con una insensatezza solo apparente, che discendiamo da un uomo solo. Adam, prima di diventare uomo, era una specie di robot, è il menoma, la matrice su cui siamo tutti costruiti. E qual è la traduzione di Adam? Adamo viene da “Adamà”, terra, zolla. La traduzione corretta, a mio parere, la dà il grande ebraista, islamista, e primo traduttore ebreo dei Vangeli, Chouraqui,  che traduce  “leglebeu”, in cui si sente quell’alito di deserto, di terra che ci fa così soffrire ma che è stata così magica. Questo siamo noi esseri umani. E dunque, se noi siamo santi, santa è la materia  di cui siamo fatti. Non si può pervertire la terra, non si può avvelenarla, non si può possederla. E quando durante la  preghiera leggiamo un brano sinagogale, arrivano ogni tanto di quei messaggi da farti vacillare le gambe, quando ad esempio sentiamo quel versetto memorabile “la terra non sarà venduta in perpetuità, perché la terra è mia” dice il  Signore, e continua “Abitaci da straniero, soggiorna da residente” e se non fosse abbastanza chiaro, il  Padreterno dice a noi ebrei che siamo piuttosto cocciuti : “Davanti a me siete tutti stranieri”. Questo andiamo a pregare e ascoltare.

Quale rapporto esiste tra etica e preghiera?

La preghiera senza l’etica è la peggior perversione che possiamo immaginare. Il linguaggio dei profeti è spietato su questo. “Mi disgustano le vostre preghiere. Come fate a flettervi come giunchi! I vostri incensi mi danno la nausea”, dice il  Santo Benedetto attraverso la bocca del profeta Isaia. “Piuttosto sollevate l’oppresso, proteggete l’orfano e la vedova cioè i deboli, restituite giustizia al vessato”. La  preghiera deve riempirsi di questi valori e deve trasportarli nella dimensione interiore, che è interiorità individuale e interiorità collettiva. Ricordo una volta che Giacomo Baroffio, forse il più grande specialista di gregoriano, un tempo preside dell’istituto pontificio di  musica sacra, benedettino, disse a un amico comune cattolico: “Non viviamo più lo spazio basilicale”. Rimasi allibito quando Baroffio disse a questo amico: “Lei vuole vedere come si  vive uno spazio basilicale? Faccia come me, vada alla sinagoga!”.  Ma cos’ è la sinagoga?  In sinagoga si va a vivere, non solo a pregare. In sinagoga come si prega, così si mangia, si beve e si festeggia e così si tolgono, con le battute, le pretese di arroganza. Poi il rabbino fa il commentario della settimana, l’omelia, e anche in quell’occasione ci possiamo rivolgere al rabbino con delle battute. Alla fine c’è il silenzio, si ascolta, e arriva un momento importante: la preghiera diventa una cosa sola con la vita. La vita non è un corpo estraneo perché la preghiera è una modalità del vivere, di costruire relazioni con se stessi e con gli altri,   una relazione sottratta alle banalità quotidiane, al rumore di fondo, alla volgarità, all’orrore della televisione…