I desmöestade us. Le smosse voci: per sentirle, ascoltarle, per cantarci in compagnia

I desmöestade us. Le smosse voci.

Smuovere voci, desmöestà us, per sentirle, ascoltarle, per cantarci in compagnia, tesse, di una trama e un ordito primario mi rendo conto, l’esperienza della mia vita. Si campa con lo spirito e con l’energia;  più spirito nel lavoro di poesia e di destino, più energia pratica nello smuovere voci che raccontano, o giovani d’Europa che suonano musica antica nel mio paese o per cantare con i miei fratelli le tante canzoni che trascendono, sublimandolo, il lessico familiare……

Anche nel gioco, impegnativo, di questa rubrica, il titolo di questo numero è il tema. Le Desmöestade us de ruch (Smosse voci di ronco) trovano la loro tessitura con le  desmöestade us del Fèro che legge questa poesia, e l’intenso e acuto commentare di Silvia Arzola. Fèro lo conosciamo; è, quella di Silvia, öna us che le corrisponde in sentimento, un bel raccontare limpio e a schiena dritta. Le sono riconoscente per questo sentito che ci regala.

Smosse voci a marcare parole.

DESMÖESTÀDE US DE RUCH.  Letta da Fèro. Per sentire

 

DESMÖESTÀDE US DE RUCH

Ol ligurù ’l gh’à us de calsìna,
sömèlga érda
a ralèntadùr
sö ’l biancùr möestàt di gére
e ön invìs
de ciarèla larga
e de sul
domestegàt,
tra bósch
e roére.

La esübes la sò, la bólp,
ma de rar,
cua de ram
tüso la vérgola de ö ’nsògn,
sgherebéss del sangh
sö la coèrta pigra
de stram.

Chèla del fuì
l’è ’l cridà de l’assènsa
sö i pène spantegade,
solènga us
de ömbréa e de lösénga
us de cüràm.

E ’l polér
de l’ànema
ö rotàm.

SMOSSE VOCI DI RONCO

Il ramarro ha voce di calcina
fulmine verde
al rallentatore
sul biancore mosso di ghiaie
e un desiderio
di radura larga
e di sole
addomesticato,
tra bosco
e smottamenti.

Esibisce la sua, la volpe,
ma di raro,
coda di rame
come la virgola di un sogno,
sghiribizzo del sangue
sulla coperta pigra
di strame.

Quella della faina
è il grido dell’assenza
sulle penne disseminate,
solinga voce
di ombra e di lusinga
voce di cuoio.

E il pollaio
dell’anima
un rottame.

 

 

da Us de ruch. Ed. LietoColle CO 2010

Mi capita, sempre più spesso, di ritrovare nella voce espressioni dialettali che non sapevo di custodire. Sono suoni (madre, padre, zii e zie, nonne) che accendono all’improvviso il parlare, rapprendendosi in immagini del tutto precise: quella ‘sfumatura lì’ non potrebbe trovare altra rappresentazione.  Quella ‘sfumatura lì, ‘del resto, ha una sua ragion d’essere nel contesto emotivo che l’ha appena generata. Sono io quel contesto emotivo e nulla mi vincola al concetto di ‘radice’ quanto la lingua. I panorami mutano di continuo e gli odori sono troppo vaghi e sentimentali: i dialetti invece, per quanto cangianti e ormai impoveriti, ancorano, prima che a luogo geografico, a uno spazio biografico. Almeno per quanto riguarda me; per quanto riguarda Maurizio Noris, tempo biografico e toponomastica affettiva si modellano vicendevolmente ‘dentro’ la lingua, e il dialetto si fa laboratorio: ponte di traduzione esperienziale.

Un dialetto che viene dal ‘ruch’, (come titola la raccolta) forse a giocare sull’ambiguità semantica della parola italiana: ronco, come il murmure rasposo nei polmoni, come il viottolo cieco o come, nello specifico bergamasco, lo slargo strappato al bosco sopra i terrazzamenti. Ecco, Us del Ruch è tutto questo; un raspare nel profondo, tanto sul piano sonoro (quel suono secco e insieme  denso del bergamasco delle valli) che su quello esistenziale; una vicolo stretto e talvolta cieco di prospettiva; un’apertura strappata alla continuità del bosco. Una ‘lingua padre’ (carica di affetti e fatica) che procede in una specie di guerriglia: corpo a corpo con una terra che si lascia amare con reticenza e plasmare a malapena.  Guerriglia in cui le vittorie sono epifanie o  tregue congelate in uno scatto di luce, come quando  la natura tutta (organica e inorganica) assume per un attimo colori simbolici per cederli poi, di nuovo,  al loro universo indecifrabile.

Emblematica di questa cifra (non certo l’unica di questa raccolta) mi pare Desmöestade us de ruch,Smosse voci di Ronco. Le ‘voci’ come spesso capita nelle poesie di Noris sono graffi e segni: resi anche cromaticamente.  Il ramarro, una saetta verde  che vorrebbe guizzare verso una radura dal sole facile, ma procede al rallentatore, quasi impastoiato dal suo stesso urlo abrasivo (di calcina): la sferza fulminea del verde che contempla la propria inadeguatezza, sul biancore della ghiaia, dentro un grido implosivo. Dinamismo e staticità: falso movimento. Quel ramarro resta imbalsamato nella percezione come forma dell’irrequietudine impotente.

E poi il rosso quasi aristocratico della volpe: una voce più che mai cromatica. Un segno ineffabile, tra il sangue e i baluginii del rame. “Virgola di un sogno” (“vérgola de ö ’nsògn“) sulla  coperta dello strame. Anche qui un elusivo sogno di dinamismo abita il ruch, un fantasma enigmatico che si fa notare per la sua prevalente assenza. E di nuovo si osserva, o meglio si percepisce acutamente, la tensione tra movimento (libertà della volpe) e la passività (immobilità) dello strame che di quel movimento trattiene giusto l’impronta capricciosa (“sghiribizzo del sangue” – “sgherebéss del sangh“).

Fino a qui, una fantasmagoria vivente di colori che serra organico e inorganico, attivo e passivo, in un quadro ancora aperto. Ma a chiudere ci pensa la faina: la faina che non ha colore se non quello del cuoio nella voce. Ombra e lusinga (“solènga us  de ömbréa e de lösénga“) circondata di piume – impalpabili trofei –  grida l’assenza così come la volpe la ‘significava’ graficamente. E in questo urlo grigio veniamo traslati verso il rottame abbandonato del pollaio. Anima deprivata, quel ‘ polér de l’ànema (ö rotàm)vibra appena, ma per un tempo che sembra inconcluso, all’urlo della faina. Tempo inconcluso, si è detto, che sospende la vita nel ruch impedendo al ramarro di saettare (se non grevemente), alla volpe di palesarsi, al lettore di sfuggire all’intensità pur dolorosa di un quadro in cui colori simbolici e naturalità (cruda e luminosa) si fondono in un’unica voce poetica.

Silvia  Arzola

Silvia Arzola, cremasca, vive tra Milano e la pianura pavese. Laureata in Filosofia Estetica, è scrittrice, traduttrice, consulente editoriale; ha scritto di letteratura e di cinema su numerose riviste. Bella persona.