La storia di un intruso, Matteo Renzi

Perché se n’è andato? La risposta prevalente, soprattutto quella degli “ex-amici”, è che “è incomprensibile”, che “non si capisce”. Si tratta di eufemismi per dire che, in realtà, Renzi è ambizioso, autocentrato, avventuriero, trasformista, assetato di potere, disperato… La psico-banalisi di Recalcati applicata alla politica ha sostituito l’analisi. Sarebbe assai più intelligente seguire l’antico consiglio di Spinoza: nec ridere, nec lugere, sed intelligere!

L’uscita di Renzi dal PD e la storia recente

Viene meglio se ripassiamo la storia di questi anni. Renzi ha conquistato il PD, lanciando ripetutamente un’Opa ostile verso l’intero gruppo dirigente storico, nato dalla fusione tra ex-PCI e ex-DC. La parola d’ordine era una variante dell’attacco populistico grillino e della sinistra populista (I Girotondi) alla Casta: “la rottamazione”, declinazione lessicale appena un po’ più gentile del “Vaffa”. Renzi chiedeva/praticava la transizione dal “caminetto” alla “leadership”.

In questione c’era l’impianto culturale e programmatico tradizionale di PCI e DC, ma soprattutto la forma-partito. L’assalto ebbe successo, al secondo round, tra gli iscritti, ma non tra i gruppi dirigenti, non tra gli apparati, non tra i capi-corrente. I guai per “il guitto” fiorentino incominciarono quando mise in discussione il rapporto con la constituency storica del PD, cioè con i sindacati, in primo luogo con la CGIL: abolizione dell’Art. 18 e Jobs Act. Rispetto al vecchio PCI, il PDS-DS-PD era diventato la cinghia di trasmissione del sindacato verso il governo. La pretesa renziana di re-invertire il senso di rotazione della cinghia fu considerata sacrilega.

Ma il punto dirimente di scontro con i gruppi dirigenti di origine PCI-DC furono l’Italicum e la proposta di riforma costituzionale del referendum 2016. Un’eventuale vittoria del SÌ avrebbe privilegiato il rapporto diretto tra i cittadini/elettori e il Capo del governo nonché Leader di partito, a scapito dell’intermediazione di partito e di… caminetto. Secondo la cultura istituzionale profonda della DC e del PCI, che affonda le radici nella Costituente e nella Costituzione del ’48, i cittadini non possono scegliere direttamente/indirettamente il capo del governo con il voto. Si devono limitare a votare i deputati, indicati dal partito, come prevedeva il Porcellum, che li ordinava in graduatoria di eleggibilità. Eletti i deputati, tocca ai partiti la scelta del governo.

Viceversa, lo scenario istituzionale del referendum ridimensionava lo spazio di mediazione dei partiti, un’intera classe dirigente politica si vedeva ridotta nell’angolo. D’Alema e Bersani scatenarono una guerriglia feroce contro Renzi, che si unì a quella esterna, altrettanto aspra, dell’intero Centro-destra e del M5S, tutti uniti all’insegna del “No all’uomo solo al comando”. Con loro una larga intellettualità giuridico-costituzionale, per la quale “guai a chi tocca la Costituzione più bella del mondo!”: il fascismo, si sa, è sempre alle porte. Con loro anche il mondo giornalistico-intellettuale di sinistra, che fa capo, principalmente, al Gruppo Espresso-Repubblica, ma che è anche fortemente insediato dentro il Corriere della sera, in molte altre testate e nelle TV.

Quel mondo è divenuto, lungo gli anni, il deposito di tutte le culture obsolete della storia della sinistra. Occorre notare che un contributo fondamentale e fatale alla propria débacle finale venne dalla personalizzazione estrema da parte dello stesso Renzi, che arrivò ad annunciare il ritiro dalla politica, se fosse stato sconfitto. La politicizzazione/partitizzazione impropria del referendum confermò a Renzi Il 40% delle elezioni europee, ma il 60% si pronunciò per il NO. Certo, alle spalle stava l’errore strategico più grave: la rottura improvvida del Nazareno, che però si deve spiegare quale risposta tattica frettolosa alla fortissima pressione dell’antiberlusconismo ideologico del PD.

Dunque: la rottura con la tradizione comunista e democristiana è avvenuta sulla concezione della politica, del partito, dei rapporti tra cittadini e Stato. Quelle tradizioni possono piegarsi a politiche socio-economiche un po’ più moderate o un po’ più radicali, ma non possono assolutamente accettare il ridimensionamento del rapporto partito/Stato a favore di un rapporto diretto cittadini/stato e di un rapporto diretto iscritti/leader. Per D’Alema e Bersani si trattava di una minaccia mortale. Perciò, tutto il vecchio gruppo dirigente in un primo tempo ha cercato l’appeasement con Renzi, poi ha caricato a testa bassa. Ogni giorno un attacco, un agguato, una presa di distanza, una delegittimazione: Renzi è di destra, Renzi è estraneo alla sinistra, Renzi è craxiforme, Renzi è berlusconiforme. Renzi è la quinta colonna del nemico, è un traditore ecc… Secondo la recentissima accusa di Bersani, “Renzi ha reciso le radici della sinistra”. D’Alema ha da sempre teorizzato con tipica arroganza rappresa: solo noi siamo la sinistra certificata, Renzi faccia il suo piccolo partito di centro! Poi ci alleiamo. Lo schema è quello classico.

L’incerta avventura di Italia Viva

Dunque, sì, Renzi è percepito come un intruso, perciò è effettivamente un intruso nella lunga e immobile storia della sinistra comunista e democristiana. Che non è mai riuscita a rifondarsi e fondersi nel PD, partito socialista-liberale e cattolico-liberale, riformista, maggioritario, di governo. E’ dal 1996 che ci provano. L’Ulivo è stato precocemente colpito da Xilella dalemiana.

Poteva Renzi stare dentro il PD a dare battaglia, come molti riformisti di lungo corso gli hanno consigliato, tanto più che – si osserva – il PD si è dimostrato contendibile? Certo che poteva. L’alternativa tra “dentrismo” e “fuorismo” è antica nella sinistra storicamente esposta alle scissioni. Per esempio, Napolitano con altri ha fatto la battaglia riformista/migliorista, prima nella scia di Amendola e poi in proprio, per sessant’anni, sempre “dentro”. Ha gestito la sua corrente con prudenza, ha piazzato i propri uomini, è diventato Presidente della repubblica.

Il guaio è che il modello-Napolitano è fallito ed è scaduto. Il PD di Zingaretti non è affatto riformista. Più che dai programmi dichiarati, lo si evince dagli uomini posti nei gangli di partito e di governo. Sì, c’è una minoranza socialista-liberale e cattolico-liberale che intende rimanere nel PD, che si batte per diventare maggioranza e che, pertanto, non vuole seguire Renzi. Essa dispone di uomini ricchi di esperienze di governo e dotati di competenze politiche e intellettuali di prim’ordine. Ha solo un problema: che manca di un leader, quello che trasforma le idee in mobilitazione, in politica e in organizzazione. L’unico leader riformista è Renzi, con tutte le sue virtù e i suoi palesi difetti. Che però sta ormai fuori. Impazienza, disperazione, visionarietà? Dunque, un errore politico? Chi può dirlo?

Intanto, quale identità di ITALIA VIVA? Dire che si colloca nel Centro “moderato”, solo perché non è di destra sovranista e non è di sinistra radicale, è limitarsi a fare della teologia negativa. Nel dibattito corrono molti stenogrammi ideologici e vengono applicate molte etichette, di cui ha fatto uso lo stesso Renzi: liberale, liberal-democratico, liberale di sinistra, centro democratico… Si capirà di più quando saranno date risposte alle domande attorcigliate nei seguenti nodi: Europa federale? Italia federale? Questione meridionale? Riforma istituzionale in senso presidenziale e conseguente sistema elettorale maggioritario a doppio turno? Riforma fiscale? Riduzione del debito pubblico? Forma-partito? Riforma della giustizia? Ecc… ecc… Su questi punti si deciderà il destino del macronismo all’italiana.