Padre Orazio Rossi, da Pedrengo al Burundi: “Un Paese cattolico, segnato dai conflitti tra etnie”

Paesaggi sconfinati, fauna selvatica unica al mondo e una ricca miscela culturale. Ma anche carestie, guerre civili, epidemie e colpi di stato violenti. Questa è l’Africa, con i suoi pregi e i suoi difetti. Affascinante e contraddittoria allo stesso tempo. 

E proprio in questo contesto ha operato per quasi trent’anni padre Orazio Rossi. Sacerdote originario di Pedrengo, con esperienze missionarie in Madagascar e Burundi. Ventitré anni nell’isola malgascia, dove è stato anche superiore dei monfortani. Quattro nello stato dell’Africa continentale, spesi come formatore in seminario. Sempre con il duplice obiettivo di aiutare i bisognosi e promuovere la crescita del clero locale.

Padre Orazio arriva per la prima volta in Africa nel 1988. Destinazione Madagascar, isola nella quale i monfortani francesi erano presenti fin dagli anni ’30. Le comunità parrocchiali malgasce si presentavano quindi come ben strutturate, con il necessario per la catechesi, la formazione della gente e la celebrazione dei sacramenti. Gli handicap principali erano di contro il limite di un personale poco numeroso e le difficoltà legate alla conformazione del territorio. Assieme a due confratelli bergamaschi, Pierino Limonta e Piero Tomasoni, padre Orazio viene mandato a Brickaville, nell’est dell’isola, a sud del grande porto di Toamasina. 

«Una parrocchia malgascia – racconta il missionario monfortano – non si limita solo alla città o al villaggio in cui è posta la chiesa principale, ma ingloba anche tutto il contado. Questo comporta che i preti di quella comunità devono gestire più realtà, distanti anche 100 km tra di loro: la prassi era perciò quella di assentarsi diversi giorni per fare delle tournée di visita nei vari villaggi rurali».

Un compito già di per sé arduo, accentuato dalle difficoltà di spostamento, soprattutto lungo le coste, dove la densità era di circa 17 abitanti per km quadrato. «Al mio arrivo, il vescovo ci aveva illustrato che il litorale est, da Antsiranana a Tolagnaro, contava  il 3-4% di cattolici – spiega padre Orazio -. L’evangelizzazione nella zona ovviamente progrediva, ma la configurazione del terreno, l’assenza di vie di comunicazione e il costante diffondersi di infezioni non aiutavano di certo. L’altra costa era anche peggio, con le diocesi ancora in fase di strutturazione. Il cristianesimo invece avanzava sull’altopiano centrale, dove era possibile muoversi con più facilità. Ed era proprio da quella zona e dalla capitale Antananarivo che proveniva il clero locale, spostatosi poi in provincia: per vedere le prime ordinazioni di preti del distretto di Toamasina, ad esempio, bisogna attendere fino al ‘92».

Dopo sei anni a Brickaville, nel ’95 padre Orazio passa un periodo nello scolasticato di Antanarivo come addetto alla formazione. Finito il mandato, nel 2005 torna al lavoro iniziale nella campagna e poi, da curato di Toamasina, viene nominato superiore dei monfortani in Madagascar, paese che lascia nel 2011. «Guardando il nostro operato in terra malgascia noto sicuramente un grande progresso sull’altipiano e nelle principali città – analizza padre Orazio -. Nella campagna invece il processo di crescita è molto più lento: sono tornato nell’ambiente rurale nel 2005 e ho trovato la stessa identica situazione di quando ero partito dieci anni prima. La gente viveva come sempre, e l’isolamento di queste località accentuava la fase di stallo in cui si manteneva la popolazione».

Caratteristico di questi villaggi rurali è la mentalità tribale che molto spesso si scontra con il messaggio cristiano. «Il grosso problema che ho trovato in Madagascar è quello della convivenza tra la novità, portata dalla fede cattolica, e la tradizione ancestrale. Una buona parte della popolazione, seppur cristiana, rimane comunque ancora legata ai riti animisti di possessione, alle figure di indovini o sciamani e ai sacrifici. In particolare, molto diffuso è il tromba: un rito di possessione nel quale la gente, guidata da una fattucchiera, cade in uno stato di trance. Inoltre anche la morte viene vista come un tabù. Un modo di pensare tipico delle campagne, dove si mescolano tradizioni ancestrali, paure e incertezza del futuro».

Diverso invece, per cultura e storia, il Burundi. Minuscolo stato dell’Africa centrale, incastonato tra Rwanda, Congo e Tanzania, nel quale padre Orazio ha operato per quattro anni, a partire dal gennaio 2014: incongruo mix di imponenti montagne, folcloristici villaggi tradizionali e un sanguinoso passato segnato dai conflitti etnici. Sul piano religioso, invece, la situazione del paese è opposta rispetto al Madagascar. «Agli inizi del 1900 i padri bianchi, che si erano insediati in Uganda, giunsero in Burundi, mettendo in atto un’evangelizzazione a tappeto. In una delle città dove noi monfortani siamo presenti, ovvero l’ex capitale Gitega, l’84% della popolazione è di fede cattolica e le parrocchie o la cattedrale sono sempre colme di fedeli. A Kiremba, invece, abbiamo un seminario con tantissimi studenti, oltre a scuole e orfanotrofi. Ma il vantaggio sostanziale nell’operare in Burundi è che il contesto molto più raccolto permette di poter visitare i vari villaggi in giornata e con maggior facilità».

Anche qui comunque le problematiche non mancano. Soprattutto a livello etnico. Il paese infatti è diviso in due gruppi principali, hutu e tutsi: le stesse etnie che nel ’94 attirarono l’attenzione mondiale per il genocidio nel vicino Rwanda. Alla base del conflitto, un fattore economico: i tutsi, pastori di stirpe nilotica, sono i possessori delle poche ricchezze mentre gli hutu, contadini bantu, non se la passano altrettanto bene. «Dal Rwanda, la guerra è passata in Burundi perché le etnie sono le stesse nei due paesi e anche le lingue, il kinyarwanda e il kirundi, sono praticamente uguali. Nonostante nel ’94 il genocidio si sia ufficialmente risolto la tensione va avanti a livello di quadri di direzione: un giorno viene ammazzato un esponente hutu, quello successivo uno tutsi. Il Burundi attualmente vive una situazione pacifica, ma di facciata, e le problematiche sono tante: ben 400 mila burundesi sono scappati in Tanzania e alla frontiera con il Congo ce ne sono altrettanti. Inoltre a livello politico, il 20 agosto 2015, Pierre Nkurunziza si è imposto per il terzo mandato di fila, nonostante sia anticostituzionale farne più di due, e l’anno prossimo intende candidarsi di nuovo». 

Attualmente il paese vive un momento di stagnazione e, a differenza del Madagascar, non riesce nemmeno ad attirare turisti dall’estero. Sarebbe necessario un cambiamento istituzionale ma fare politica in una realtà complessa come l’Africa non è per niente facile. «Il principale problema è che pur essendoci la democrazia scritta, la mentalità africana, di estrazione tribale, sente invece la necessità della presenza di un capo – rileva padre Orazio -. In Madagascar, per esempio, il sindaco del villaggio, un funzionario statale o anche i missionari devono prima avere il via libera del tangalamena, ovvero il leader morale della comunità, per poi poter operare nel sociale». 

In Africa è in atto un processo di crescita che richiederà ancora molto tempo. Come religioso padre Orazio nutre forte speranza, anche perché la Provvidenza aiuta sempre. Pure in Africa.