Via libera al taglio dei parlamentari. Ma non è l’ultimo atto

La Camera ha approvato la legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori elettivi (esclusi i senatori a vita). Hanno votato a favore quasi tutti i gruppi: 553 i sì, 14 i no, 2 le astensioni. Con questo passaggio si completa l’iter parlamentare della riforma che, modificando gli articoli 56,57 e 59 della Costituzione, ha richiesto una doppia approvazione da parte di Camera e Senato. La legge però non entra subito in vigore perché è possibile che entro tre mesi venga richiesto un referendum “confermativo”. Possono farlo 500 mila elettori, 5 consigli regionali o un quinto dei membri di una delle Camere. In caso di referendum l’efficacia della legge rimarrebbe sospesa in attesa della consultazione popolare, in pratica fino alla tarda primavera del 2020. Nel 2006 (riforma Berlusconi) e nel 2016 (riforma Renzi) i referendum ebbero esito negativo. Ma si trattava di interventi di revisione costituzionale molto ampi e il voto popolare venne di fatto trasformato in un referendum sui governi in carica. In questo caso, invece, c’è praticamente un solo punto e, con quelli che sembrano i sentimenti prevalenti nell’opinione pubblica, è agevole ipotizzare un esito largamente favorevole. Il che dovrebbe scoraggiare la richiesta di referendum. Ma in ambito parlamentare già si annuncia una raccolta di firme e l’obiettivo di un quinto dei membri di una Camera non è irraggiungibile. A prescindere dal suo esito, il referendum avrebbe comunque l’effetto di posticipare tutta l’operazione di molti mesi.
Il testo approvato è molto breve, si compone di quattro articoli. Oltre a ridurre il totale dei parlamentari, le norme tagliano conseguentemente anche i deputati e i senatori eletti all’estero (da 12 a 8 e da 6 a 4).
Viene ridotto anche il numero minimo di senatori eletti per regione (secondo la Costituzione il Senato è eletto su base regionale), che passa da 7 a 3. Invariata la rappresentanza del Molise (2 senatori) e della Valle d’Aosta (un senatore). Per quanto riguarda le regioni e le province autonome, la ripartizione dei seggi si effettua proporzionalmente alla loro popolazione come indicata nell’ultimo censimento. La riforma stabilisce anche che il numero dei senatori a vita di nomina presidenziale non debba essere superiore a 5. La formulazione attuale, infatti, si era prestata a differenti interpretazioni. Pertini e Cossiga, per esempio, l’avevano letta nel senso che ogni presidente poteva nominare 5 senatori a vita, così che il numero totale di questi ultimi aveva finito per crescere. L’ultimo articolo prevede l’applicazione delle nuove norme a partire dal primo scioglimento o dalla prima cessazione delle Camere successiva all’entrata in vigore della riforma e comunque non prima di sessanta giorni dalla stessa entrata in vigore. Un dettaglio su cui sono stati compiuti esercizi al limite della fantapolitica: qualora le Camere venissero sciolte entro questo termine di due mesi, infatti, la riduzione scatterebbe nella legislatura successiva e si andrebbe alle urne per eleggere gli stessi deputati e senatori di adesso. Ma si aggirerebbero quattro voti convergenti del Parlamento e un referendum popolare: appare veramente problematico pensare che il Capo dello Stato possa sciogliere le Camere in un contesto del genere.

Il dibattito pubblico sulla riforma è tutt’ora apertissimo. A far discutere non è il tema della riduzione in sé. Il numero di deputati e senatori non è un dogma. L’assetto che abbiamo conosciuto finora non è neanche presente nella Carta del 1948 ma è stato introdotto con la legge costituzionale n.2 del 1963. Nelle legislature precedenti il numero dei parlamentari è variato in relazione alla popolazione e su livelli leggermente inferiori agli attuali. Peraltro è dall’inizio degli anni Ottanta, dai lavori della cosiddetta Commissione Bozzi, che il tema è comparso in tutti i progetti di riforma costituzionale, fino a quello recente di Renzi, che aboliva tout court il Senato elettivo.

Gli aspetti controversi della riforma in campo oggi si collocano su due piani, uno di tipo culturale, l’altro genuinamente istituzionale.
Sul primo aspetto, è preoccupante l’approccio “antiparlamentare” con cui spesso è stata presentata la riforma. Come se deputati e senatori andassero drasticamente tagliati perché inutili e costosi, non per cercare di migliorare la funzionalità del processo legislativo. Il passaggio dalla doverosa critica del malcostume politico alla messa in discussione della democrazia rappresentativa può essere drammaticamente breve. Anche il discorso dei costi richiede una messa a punto severa. Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani della Cattolica, il taglio comporterà risparmi per 57 milioni all’anno, pari allo 0,007% della spesa pubblica. Le stime dei proponenti sono superiori nei valori assoluti, ma loro incidenza risulta sempre irrisoria. Che tutti siano tenuti a sobrietà e rigore e a condividere i sacrifici è un principio inoppugnabile, ma che si faccia passare il taglio dei parlamentari come un contributo alla riduzione della spesa pubblica è un’offesa all’intelligenza.
Sul piano istituzionale, l’analisi critica pone in evidenza le implicazioni di un intervento di riforma che appare chirurgicamente circoscritto e che invece ha ripercussioni di grande rilevanza su questioni delicatissime per una democrazia.
Si è già scritto molte volte ma vale la pena ripeterlo: ridurre i parlamentari in questo modo produce una forte riduzione della rappresentanza. Con molti meno seggi da assegnare è come se si adottasse una legge elettorale con una soglia di sbarramento altissima che terrebbe fuori dal Parlamento forze pur dotate di un consenso significativo. Soprattutto al Senato, in certe regioni anche il terzo o il quarto partito sarebbero esclusi dall’assegnazione di seggi. Il rapporto con il territorio viene messo in crisi, inoltre, da un aumento esponenziale del numero dei cittadini rappresentati da ogni parlamentare. Avremo un deputato ogni circa 151 mila abitanti contro gli attuali 96 mila. La riduzione ha poi ricadute evidenti su tutta l’attività del Parlamento, dal procedimento di formazione delle leggi alla costituzione delle commissioni (che devono assicurare la rappresentanza delle minoranze) fino all’elezione del Presidente della Repubblica.
Non a caso, proprio alla vigilia del quarto voto della Camera, i capigruppo di tutti i partiti di maggioranza hanno sottoscritto un documento in cui si impegnano a riequilibrare il sistema con tutta una serie di interventi compensativi. Si va da una modifica alla legge elettorale per tutelare la rappresentanza politica e dei territori a un’organica revisione dei regolamenti parlamentari, che limiti il ricorso ai decreti-legge e al voto di fiducia, fino ad alcune ulteriori riforme costituzionali, come l’equiparazione dei requisiti di elettorato attivo e passivo tra le due Camere.Stefano De Martis