Il “Cimitero degli sconosciuti” e le tombe senza nome di chi sperava in una vita migliore

Non sono molti i chilometri che separano Zarzis, nel sud della Tunisia, dalle coste italiane. Da qui, sfidano il destino le barche che partono illegalmente per raggiungere l’Europa con la speranza di una vita migliore. Ma, purtroppo, quello che spesso trovano in mare è la morte. I corpi dei migranti, per lo più subsahariani, portati a riva dalle onde del mare o recuperati dai pescatori tunisini, vengono seppelliti nel cosiddetto “Cimitero degli sconosciuti”. “Inizialmente i corpi erano seppelliti nel cimitero musulmano di Lazragh, un cimitero familiare – spiega Mohsen Lihidheb -. Quando sono diventati parecchi, nel 2006 la municipalità ha messo a disposizione un terreno, una vecchia discarica, in parte ripulita per fare posto a fosse comuni”.

A vederlo da lontano, sembra abbandonato: nessun perimetro, solo due colonne e un cartello che ne sancisce il luogo. Solo una lapide ha il nome: è quella di Rose Marie, morta il giorno prima del salvataggio. Aveva 28 anni, lavorava in una scuola elementare e in Nigeria aveva lasciato il suo bambino. Sulla lapide, la data del 27 maggio 2017, il giorno della sua morte. Le altre tombe sono contrassegnate semplicemente da una targa recante il numero del file dna della vittima e la data di sepoltura. È Chamseddine Marzoug, ex pescatore, volontario della Mezzaluna rossa tunisina (corrispondente alla nostra Croce Rossa), che assieme a un gruppo di volontari si occupa di dare sepoltura dignitosa a queste persone, e a tenere in ordine questo spazio. La sua storia e di quella dell’Associazione pescatori di Zarzis è stata raccontata nel documentario “Strange Fish” di Giulia Bertoluzzi. Sulle zolle di terra che ricoprono i corpi, Chamseddine posiziona dei fiori. Poco più in là, vicino a un centro di accoglienza per migranti, dei muratori stanno costruendo un altro cimitero, reso possibile grazie a delle donazioni: nel cimitero degli sconosciuti non c’è più posto per altri corpi ritrovati in mare.

Nonostante non sia ancora finito, verso il fondo, diversi cumuli di terra indicano che qualcuno vi è già stato sepolto: sono le vittime degli ultimi naufragi. Nessuna lapide, nessun nome e cognome o data di nascita. Un semplice cartello in legno, “Zarzis 30”, “Zarzis 18”, “Zarzis 15”, un fiore: indicano il luogo del ritrovamento e il numero del corpo ritrovato. Uno di essi indica la data del ritrovamento, 18 luglio 2019. Un cartello salta subito all’occhio: “Aghir, Bebé, A19”: anche un neonato ha trovato la morte nell’ultima traversata del Mediterraneo. A tenere viva la memoria di questi sconosciuti, Mohsen Lihidheb, ora pensionato, ex impiegato delle poste tunisine. Nella sua abitazione ha creato “Il museo del mare e dell’uomo”, dove ha posizionato gli oggetti raccolti sulla spiaggia: dapprima bottiglie di plastica, spugne, boe, poi i pochi oggetti che i migranti portano con sè. Tantissime scarpe, ma anche qualche borsetta, una bambola, vestiti, e salvagenti.

“Osservo le suole di queste scarpe – racconta – ed immagino il viaggio che queste persone hanno dovuto affrontare”. Prende in mano un infradito rosa, era di una bambina, e mi mostra il filo di ferro che lo tiene legato e ne conferma il lungo viaggio affrontato. Alcune scarpe sono ammucchiate una sopra l’altra, altre sono appese con dei fili alle mensole. Mohsen, ogni volta che qualcuno entra nel museo, li muove, uno ad uno, per onorare la memoria di questi migranti annegati in mare. Attaccata ad una scarpa, una bambola ondeggia anche lei, assieme a un cappottino rosso.