Essere “veri” per essere catechisti: la missione di due sposi all’oratorio di Parre

Alberto e Lucia sono sposati da trent’anni, vivono a Parre e hanno sempre sperimentato il volontariato in oratorio. Lucia è un’insegnante della scuola primaria di Gorno, mentre Alberto lavora a Stezzano come operaio. Sono stati chiamati ad essere catechisti e hanno scelto di rispondere “presente” mettendoci la faccia. Una scelta che può sembrare comune.

Gli inizi da catechisti

“Ho iniziato a fare il catechista perché me l’hanno chiesto – spiega Alberto Milesi -. Mancavano dei volontari che svolgessero questo ruolo e ho risposto di sì. A certe chiamate a volte non si vorrebbe rispondere, ma dato che ci credo veramente ho risposto ‘Presente’. Sono stato affiancato da una brava catechista e abbiamo portato i ragazzi alla cresima. Il percorso è stato difficile, ma bellissimo perché abbiamo riscoperto dei ragazzi. Siamo partiti dal presupposto di lasciare loro un messaggio e ci siamo riusciti. Ora sono in terza media e sono ancora molto presenti. È stata una chiamata e l’ho fatto, e lo rifarei, volentieri”.

La storia di Lucia, invece, è un po’ diversa. Ha iniziato a fare la catechista attorno ai 17 anni, ma a causa di diversi impegni ha dovuto mettere in pausa il suo servizio fino all’ingresso di don Armando Carminati. “Appena arrivato, don Armando ha fatto una richiesta pubblica durante la messa. Cercava dei catechisti, mi sono sentita chiamata e ho dato la mia disponibilità” racconta Lucia Regazzoni che ha scelto di rimettersi in gioco con una classe impegnativa. Essere catechisti, però, permette di vedere i ragazzi sotto una luce nuova e di scoprire il loro vero potenziale. “Abbiamo scoperto che a loro piace sentirsi gruppo e sentirsi partecipi -prosegue Lucia-. Puntiamo molto sul loro coinvolgimento. È un po’ faticoso, ma è sempre una grande soddisfazione poterli accompagnare”.

A contatto con la realtà dei ragazzi

Nel corso degli anni, il catechismo ha cambiato volto accantonando la metodologia della lezione frontale e preferendo nuove forme. “Credo che essere catechista sia la stessa cosa dell’essere genitore -dice Alberto-. I ragazzi oggi vedono il tuo essere vero. Nel momento in cui i ragazzi si accorgono che non sei così vero, non potrai mai far arrivare loro un messaggio. Lo consiglierei perché è una bella esperienza. Vivi con i giovani, vivi con la realtà di oggi e puoi comunicare con modalità diverse da quelle di una volta. Oggi si adotta un sistema diverso per far arrivare un messaggio e il tramite è la realtà di tutti i giorni. Bisogna provare un’esperienza simile per capire cosa vivono i ragazzi e quanto abbiano tanto da dare. Purtroppo, sono poco ascoltati perché vivono troppo soli attorno al mondo del cellulare”.

Essere catechisti significa anche incontrare degli spaccati di quotidianità che rivelano la vera identità dei giovani. Camminando con i propri ragazzi si impara a conoscere le loro esigenze e le loro fragilità. Si comprende il loro punto di vista e si dà voce a tante idee. “Hanno tantissimi contatti, ma vivo da soli. La solitudine la sentono molto e, secondo me, i ragazzi vengono volentieri perché ci troviamo tutti insieme. Ognuno parla e ci si ascolta a vicenda”. La preoccupazione di Alberto si trasforma in servizio mettendo a disposizione il suo tempo per i suoi ragazzi. Un impegno non sempre facile, ma che, con pazienza, porta frutto.

Se da un lato la gratuità sembra avere un senso unico, cambiando prospettiva ci si rende conto anche dell’altra faccia della medaglia. “Fare il catechista aiuta anche a conoscere se stessi e a crescere” sottolinea Lucia che ha sperimentato diverse modalità di fare catechismo coinvolgendo tutti i suoi ragazzi. “Il catechismo non è più una lezione. È importante spronare i ragazzi a dire la loro”.

Più che un invito, una chiamata

Nonostante la catechesi sia cambiata negli anni, la figura del catechista rimane un ruolo impegnativo. È una forma di volontariato speciale in cui bisogna sentirsi chiamati più che invitati. “Invitare qualcuno oggi diventa difficile perché essere cristiani è divento sinonimo di essere controcorrente -commenta Alberto-. Ci devi credere, non devi aver vergogna. Se inviti qualcuno spesso ti risponde ‘Cosa racconto io ai ragazzi?’, ma la risposta è semplice. Basta parlare della quotidianità, delle tue esperienze. Lì i ragazzi si interesseranno. Metterci la faccia da catechisti significa essere veri, portare esperienze di vissuto quotidiano in modo da arrivare al cuore dei ragazzi”.

“Tutto ciò vale per i ragazzi della catechesi come per le coppie del corso fidanzati. Se ti parlo di un gesto, di una beatitudine, di un modo di vivere portando degli esempi, sceglierò gli esempi di tutti i giorni. Così riuscirò ad avere la loro attenzione, ma, soprattutto, a lasciar loro qualcosa. Questo è ciò che vogliamo fare con la nostra missione: lasciare un segno”.