Giuseppe Carrara, missionario del Pime nelle Filippine: “La fede incide poco sulle scelte di vita quotidiana”

Nelle Filippine, arcipelago in cui è forte la tradizione cristiana, padre Giuseppe Carrara vive con dedizione il suo mandato di missionario, in parrocchia, nelle scuole o per strada tra la gente. Nato a Ponte San Pietro nel 1964, ma cresciuto a Bonate Sopra, ha sposato la vocazione propria del P.I.M.E., impegnandosi per favorire la collaborazione con il clero autoctono filippino e le realtà diocesane. Dal 1994 ad oggi, salvo qualche breve periodo di aggiornamento e studio in Italia, il religioso bergamasco ha sempre operato nell’ex colonia spagnola, misurandosi quotidianamente con lingue, culture, dinamiche e, certamente, declinazioni religiose, diverse da quelle a cui era abituato.
Padre Giuseppe, come è nata la sua vocazione missionaria?
«Inizialmente l’idea era di entrare in diocesi, dove ho due cugini, e in passato anche uno zio, sacerdoti. Un po’ alla volta, però, è maturata in me la vocazione missionaria, con l’intento di dedicare la mia vita all’annuncio del Vangelo. I primi contatti con il P.I.M.E. li ho avuti durante le scuole medie, quando i missionari di Sotto il Monte visitavano parrocchie e oratori della zona. Dopo il conseguimento della maturità tecnico-commerciale e diversi anni di discernimento, nel settembre del 1983 sono entrato nel seminario del P.I.M.E. di Monza. Ordinato sacerdote il 24 giugno 1989, pensavo di partire subito per la missione e invece sono stato, dal 1989 al 1993, a Sotto il Monte, per la formazione dei giovani seminaristi e l’animazione missionaria e vocazionale».
Nel 1993 un anno di studio dell’inglese negli Stati Uniti. Poi, nel ’94, la partenza per la missione: come descrive il suo operato nelle Filippine?
«A parte i due periodi passati in Italia, dal 2000 al 2002 per studi a Roma e dal 2006 al 2009 a Napoli per l’animazione vocazionale, posso dividere la mia esperienza filippina in due parti. La prima, fino al 2006, concentrata a Mindanao, in zone soprattutto rurali e con forte presenza non cristiana, musulmana o tribale: ero impegnato nel lavoro pastorale-parrocchiale, come assistente prima e come parroco poi. Nel secondo periodo, dal 2009 ad oggi, mi sono spostato invece al nord: prima a Mindoro, poi a Cavite. La comunità P.I.M.E. delle Filippine, infatti, aveva deciso di aprire una nuova zona di lavoro di lingua Tagalog, per dare un’alternativa ai confratelli che operavano a Manila. La prima opportunità fu Mindoro, e padre Bossi fu il pioniere in quella zona. Ho lavorato per un certo periodo con lui, ma, dopo la sua morte, assieme ai superiori abbiamo pensato alla possibilità di trasferirci in un’altra area. La scelta è ricaduta su Cavite, anche per accogliere l’invito di papa Francesco a lavorare nelle periferie delle grandi metropoli: da Cavite, infatti, la capitale Manila e i suoi numerosi bisognosi sono tranquillamente raggiungibili in giornata».
Che Paese sono le Filippine?
«Le definirei come il tipico Paese in via di sviluppo, con tutte le contraddizioni del caso: zone ricchissime che si alternano ad altre estremamente povere. Milioni di persone lasciano le campagne per andare in città o all’estero, per trovare fortuna. La scena politica è dominata dai soliti noti e una mentalità corrotta, comune a tutti i livelli sociali, priva il Paese di quelle immense ricchezze che potrebbero, invece, aiutarne lo sviluppo. Recentemente si è aggiunta, con l’attuale presidente, una campagna terribile contro tossicodipendenti e spacciatori – invece che contro i grandi protettori del mercato della droga – che ha fatto diverse migliaia di vittime: quasi tutti poveracci, uccisi dalla polizia stessa o da vari sicari che restano ancora impuniti».
Dal punto di vista religioso, invece?
«Le Filippine, ex colonia spagnola, sono un’arcipelago a maggioranza cattolica: durante i primi anni di ministero, però, mi sono reso conto del non indifferente peso, in questo Paese, di diverse comunità di non cristiani, musulmani e animisti che, in alcune zone in particolare, costituivano e costituiscono ancora la maggioranza della popolazione. Ciò mi ha fatto capire che la mia presenza, come missionario, poteva benissimo avere un senso compiuto anche nelle Filippine.
Come succede spesso in Europa, la fede cristiana in genere non incide sulle scelte di vita quotidiana. A queste latitudini, è piuttosto un misto di superstizioni, ereditate dalla religione originaria animista, e un fattore di aggregazione sociale. Un esempio si ricava da battesimi e matrimoni: occasioni per rinsaldare rapporti o crearne di nuovi attraverso l’invito e la partecipazione come padrini – e ce ne possono essere anche decine, nemmeno tutti cattolici – di politici o ricchi, i più ricercati per aumentare l’influenza della famiglia o del clan.
L’insegnamento sociale e morale della Chiesa, se non addirittura ignorato, è considerato irrilevante. Pena di morte, divorzio, aborto, contraccezione, mentalità gender, corruzione, menzogna, infedeltà alle promesse e agli impegni sono ormai parte della forma mentis comune, anche se non sempre legge dello Stato.
La stragrande maggioranza dei cattolici va in chiesa il giorno del battesimo e vi ritorna il giorno del funerale. Inutile stupirsi che non riescano più a pregare, non sappiano in cosa credono e impostino la vita in base a ciò che vedono su internet o in televisione. In realtà, però, non credo che in Italia le cose vadano molto meglio».
Nel 2021, tornerà in Italia per l’aggiornamento teologico-pastorale. Ad oggi, può fare un bilancio della sua esperienza nelle Filippine?
«Sicuramente c’è un po’ di delusione per come i cattolici locali vivono la fede. Naturalmente, ci sono anche delle persone davvero encomiabili per la loro devozione, speranza e carità. Tuttavia, ciò rinforza la convinzione che le Filippine siano veramente terra di missione: non solo per la povertà materiale diffusa, che i molti lavoratori all’estero stanno riducendo, e la presenza di animisti e musulmani, ma anche e soprattutto per la povertà spirituale di tanti cristiani. Nessuno vuole dare la colpa a nessuno. Solo Dio può giudicare il cuore di ogni persona. Rimane però il dato oggettivo di una fede, teorica, che non trasforma la vita al di là di momenti celebrativi che sembrano coinvolgere molti cattolici solo perché, rispetto all’Europa, ci sono meno chiese e i filippini sono più di 100 milioni. In realtà, le percentuali di pratica sono molte basse: 5/10 % a seconda delle zone. La mia attuale parrocchia, dedicata a santa Teresina del Bambin Gesù, si trova nella cittadina di General Mariano Alvarez, in provincia di Cavite, a sud di Manila, ed è condizionata da un fenomeno immigratorio da diverse parti delle Filippine, che rende difficile l’integrazione e il senso di comunità. Circa il 3 % dei parrocchiani frequenta la messa domenicale: in quattro anni e mezzo ho celebrato un centinaio di battesimi; solo sei, invece, i matrimoni».
Che cosa ha imparato in questi anni di missione?
«Personalmente, ho imparato a non dare più per scontati i valori cristiani. Ringrazio infinitamente i miei genitori, che sono in Cielo, per avermi trasmesso la fede dei semplici. Chiedo a Dio di aumentare sempre di più in me e in coloro che mi ha affidato la fiducia in Lui e l’amore verso il prossimo, che così fortemente sono sfidati dalla cultura dominante.
Dal vivere con i poveri delle Filippine, invece, ho imparato una cosa davvero importante: non mollare mai! La vita, per quanto dura, vale sempre la pena di essere accettata e vissuta. È interessante, a proposito, il dato sui suicidi, in aumento anche qui: di solito, si tratta di persone benestanti, non di poveri. Sembra che la povertà renda più forti psicologicamente, mentre la vita agiata indebolisca, facendo perdere la speranza di fronte alla crisi, ai problemi e alle tensioni».