Il pubblico, il privato, il grande scontento e come tentare di uscirne. Per un bilancio di fine anno

Infelicità pubblica e infelicità privata

Il calendario è spietato, non concede tregue. Così, sospinti verso la fine del 2019, siamo costretti ai bilanci di fine anno. Ciascuno compila il proprio. Nonostante le apparenze, c’è osmosi tra i due vasi: quello delle fortune private e quello delle fortune pubbliche. Difficile sentire il vento in poppa per la propria privata barchetta, se ci si trova in una palude pubblica non sfiorata da alito di vento. Difficile immaginarsi un futuro individuale in un Paese che guarda all’indietro. Impossibile una felicità privata, se esiste una vasta infelicità pubblica.

La fenomenologia di quest’ultima è piuttosto vasta. L’ultimo Rapporto Censis la descrive compiutamente. Il governo è tenuto su dalle proprie debolezze, sta in piedi solo perché non sa che da parte cadere. Non ha né programma né prospettive. Aumenta la massa degli scontenti, mentre ben il 42% degli interpellati dichiara che si asterrebbe alle prossime elezioni. Come ha ripetutamente segnalato Nando Pagnoncelli, chi, godendo del 30% dei voti, parla a nome degli Italiani, ne rappresenta, in realtà, solo il 18%. E così via in discesa per chi dispone di percentuali più basse… Gli investitori esteri incominciano ad abbandonare l’Italia. Ma lo fanno anche i nostri giovani più preparati e volenterosi, in cerca di fortuna. Ma molti altri si sono annidati in una condizione alienata di NEET –  Not in Education, Employment or Training – senza futuro, abbandonati passivamente ad un nichilismo muto. La spesa pubblica è per lo più dedicata a “giovani anziani”. Di immigrati ne arrivano relativamente pochi, ma per quelli legalmente presenti sul territorio nazionale non abbiamo stabilito un programma severo di step severi ed efficaci di integrazione. Eppure saranno gli Italiani di domani, cui consegnare il lascito della nostra civiltà. D’altronde, a chi se no, visto che siamo in pieno inverno demografico, che dal 2015 la popolazione “indigena” ha incominciato a diminuire, che stiamo precipitando verso una società di anziani? Donde le paure di estinzione e di “finis Italiae”.

Il percorso di questo calvario fenomenologico è troppo lungo per descriverne qui compiutamente le tappe e le cadute, ben più delle tre classiche… E’ certo che, al momento, le nostre eventuali felicità private sono imprigionate in un magma di infelicità pubblica, rispetto alla quale ciascuno di noi si percepisce angosciato, impotente, irato e rassegnato. Il nichilismo collettivo tende a travolgere la dimensione privata, entra nelle nostre case, piega i nostri progetti e le nostre speranze verso ogni possibile distopia, in un circolo vizioso senza fine. Se lo spirito pubblico non riesce a dare un significato storico alla propria esistenza come comunità nazionale, come Paese, allora quello privato è condannato all’evasione, all’ira funesta, al tribalismo.

L’attesa dell’uomo forte

Di tale condizione sono state fornite in questi anni molte spiegazioni, che alludono a cause economico-sociali, politico-istituzionali, culturali, spirituali. Per quanto le spiegazioni e le terapie possano essere tutte rigorosamente pertinenti o esaustive, da esse non viene, ahinoi, nessuna energia per smuovere le acque. Il succitato Censis nota che circa il 48% degli Italiani attende “l’Uomo forte”, alla cui spada affidare il taglio dei nodi mai sciolti, il Veltro dantesco, che “…non ciberà terra né peltro / ma sapienza, amore e virtute”. Molti di coloro che stanno in attesa sono gli stessi che di fronte alla proposta di un governo forte – vedi alla voce referendum del 2016 – vi si sono opposti in nome della difesa strenua della democrazia e della Costituzione.

Ha ragione Angelo Panebianco a segnalare “l’inaffidabilità democratica di tanta parte del pubblico e delle élite”. L’ossigeno alla democrazia non è fornito dal consenso. Essa può morire soffocata da un abbondante consenso passivo, che la paralizza e la trasforma democrazia corporativa, nella quale ogni minoranza di interessi blocca ogni altra, in perfetta corrispondenza biunivoca e complicità consapevole tra élite e popolo. E’ la responsabilità critica che alimenta la democrazia.

La possibile, difficile rinascita

Donde verrà la rinascita? Possiamo auto-risorgere?

Jared Diamond ha dedicato un libro recente alla questione – che funge anche da titolo – “Crisi. Come rinascono le nazioni”. L’Autore elenca ben dodici “fattori fondamentali” non molto differenti da quelli che servono a ciascuno per superare crisi individuali. Ne cito alcuni: “riconoscere e ammettere la crisi; accettare la responsabilità per uscire dal vittimismo; fare un’autovalutazione onesta; recuperare e rivalutare i valori storici e la dignità nazionale…”.

Non compare, tra i fattori, nessuna forza esterna. Diamond fa appello al lascito storico della cultura progressista dell’Occidente, fatta di razionalismo, di primato del Logos, di assunzione di responsabilità personale. La forza è dentro di noi: dire la verità a se stessi e assumersi le responsabilità che ne conseguono.

Come non ricordare il “De vera religione” (XXXIX, 72) di sant’Agostino: “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” ? Non è una fuga dalla storia, benché questa fosse, talora almeno, l’intenzione neoplatonica di Agostino.

In ogni caso, papa Francesco ha aggiunto, nel suo discorso della notte di Natale, una finalizzazione storica: “la storia cambia, quando vogliamo cambiare noi stessi”. Non cambia quando ci proponiamo di cambiare gli altri. “Cominciamo noi”!

Che significa “cominciare da noi”? Francesco dice: “Diventare dono per gli altri”. Tradotto in politichese: pre-occuparsi della cosa pubblica, avere cura della res pubblica, usare “Logos” e “agape”per il destino comune. Prediche buoniste e inutili di fine anno? Il fatto è che la politica ha radici antropologiche. E’ di lì che può cominciare l’esodo dall’ “Egitto del tempo presente”!