Sulla sofferenza. Ricordi che affiorano, strazianti e dolcissimi

Niente da fare. La questione della sofferenza e del suo accompagnamento fa parte di me. È lì, non se ne va. E io non voglio che se ne vada, perché mi costituisce. E in questi giorni riaffiora. La mente è andata innanzitutto a dieci anni fa. Ero diacono, a pochi mesi dall’ordinazione presbiterale. Con alcuni compagni di classe prestavo servizio, il lunedì pomeriggio, presso l’Ospedale Maggiore di Bergamo (non c’era ancora l’ospedale Giovanni XXIII, inaugurato a dicembre 2012). Passavo nei reparti a salutare i pazienti, a scambiare due parole, a dare una benedizione e a distribuire la comunione ai pazienti che potevano assumerla e lo desideravano. Avevo scelto tre reparti: Cardiologia, Nefrologia e Dialisi, Oncologia Pediatrica.

Nel reparto di Nefrologia e Dialisi era stato curato per anni mio nonno e spesso mi fermavo dinanzi alla stanza nella quale aveva emanato l’ultimo respiro, per una preghiera. In oncologia pediatrica, pur con una fatica immensa, ero voluto andare per quei piccoli. Non potrò mai dimenticare ciò che ho visto. Quei bambini, senza capelli, sdraiati, ma capaci di sorriderti e raccontarti della loro squadra preferita. Ricordo i loro famigliari. Qualche mamma mi seguiva dopo la benedizione al figlio, usciva dalla stanza e piangeva: “Benedica anche me… non ce la faccio più… il mio bambino…”. E ricordo bene, benissimo, quando la settimana successiva a una visita chiedevo all’infermiera dove fosse il bambino che avevo salutato la settimana precedente: il suo abbassare gli occhi, scuotendo la testa, mi dava la straziante risposta.

Poi penso alla cura. La cura, che è innanzitutto pratica, come un uomo che impasta argilla, scriveva il grande Heidegger. Penso a mamma e papà, due medici di base, al loro confrontarsi la sera sulle persone visitate, con un linguaggio per me spesso incomprensibile. E penso alla vicinanza ai malati, che mi raccontavano e che mi hanno permesso anche di sperimentare in casa.

Il nonno Pino, per cinque anni, ha fatto la dialisi peritoneale in casa. Io ero alle superiori, mio fratello alle medie. Ma sapevamo cosa fare, la mamma ce lo aveva detto. Spesso il nostro lavoro consisteva nello scaricare dall’ascensore le sacche della Baxter, ossia i materiali necessari alle terapie renali. Quando il nonno sveniva durante la dialisi, conoscevamo il procedimento: alzare le gambe, lasciare che finisse la fase di scarico dei liquidi dal catetere che usciva dall’addome del nonno, chiudere la valvola dello scarico e aprire quella che faceva entrare i liquidi delle sacche Baxter nel corpo del nonno. Poi, la verifica del liquido scaricato con uno strumento apposito, perché se quanto era uscito dal corpo del nonno era torbido, poteva esserci infezione. Noi eravamo lì, senza competenze mediche, ma con la voglia di stare con lui durante le cure.

E poi, 12 anni dopo, la nonna Angiola. Penso agli ultimi mesi, all’acutizzarsi di un brutto male che correva veloce, nonostante i suoi 85 anni. Ero già prete. Le portavo la comunione a casa. Andavo a trovarla in clinica, gli ultimi giorni. Sorrideva. Prima di andare in coma, di sabato pomeriggio, aveva detto: “Lunedì viene il mio Alberto a farmi la comunione”. Quella comunione la nonna l’ha vissuta con il Signore, che ha raggiunto qualche ora dopo, di notte.

Da lì in poi, è aumentata in me la passione per la vicinanza ai malati e, a livello di studio, la passione per le ricerche che indagano la comunicazione con loro. Ricordo come fossero state tenute ieri le lezioni di bioetica di don Maurizio Chiodi, gustate fino in fondo. Conservo nel cassetto il desiderio di una ripresa teorica, nello studio, di quelle questioni per me fondamentali.

La grande Alda Merini diceva che occorre scegliere con cura le parole da non dire. Vero, verissimo, macon i malati, anche quelle da dire! Ricordo che fin da bambino, una delle domande che rivolgevo alla mamma era quella inerente la comunicazione di diagnosi pesanti alle persone: “Come fai a dirglielo mamma?”.

Ecco, siamo sempre lì. Siamo alla parola. Scrive il grande Eugenio Borgna, psichiatra, nel suo libretto intitolato “Parlarsi”, che in questi giorni mi sta scuotendo mente e cuore:

Come si entra in relazione con chi soffre di una malattia dell’anima, o del corpo? Talora anche solo rimanendo accanto a una paziente, o a un paziente, lambiti dai venti sotterranei della tristezza, o dell’angoscia, del male di vivere, o della disperazione, non lasciandosi trascinare dalle rigide scansioni di un tempo determinato, ma sintonizzandosi con gli sconfinati orizzonti del tempo interiore: del tempo vissuto.

E, aggiungo io, affidandosi alla Parola, l’unica Parola che ha dato vita al mondo e che sa dire il senso del nostro vivere e del nostro morire.