Quale prete? Per quale Chiesa? Sulle forme del ministero

Regione che vai, prete che trovi, potremmo dire. La ricchezza della Chiesa sta anche in questa varietà di modi di vivere il ministero. E questa, mi sembra di capire, è una cosa seria.

Le molte fatiche del prete

Qualche giorno fa, alla riunione degli incaricati di pastorale giovanile della Diocesi di Bergamo, ragionando di Oratori, CRE, comunità, qualche confratello metteva in luce le fatiche connesse al fatto che spesso il carico di lavoro è pesante, si fatica a trovare collaboratori, e, non raramente, quello che dovrebbe essere frutto dell’impegno della comunità intera finisce per gravare sulle spalle del solo prete. Da qui era emersa la questione, solo accennata, non essendo quella la sede per questo argomento, di un modello di parrocchia da rivedere, perché su molti aspetti esso pare non essere più adeguato al tessuto sociale di oggi. Un confratello ha anche accennato, fermo restando che è il Vescovo che su questo decide, alla percezione del bisogno di un Sinodo Diocesano che rifletta nuovamente sulla parrocchia (peraltro, va ricordato che l’ultimo Sinodo della Chiesa di Bergamo, celebrato dal Vescovo Amadei nel 2007, mise a tema esattamente la Parrocchia), che in questi ultimi anni attraversa cambiamenti sostanziali e che cammina verso un futuro che, con ogni probabilità, incontrerà ulteriori stravolgimenti.

La sensazione di “girare a vuoto”

Da parte mia, mentre ascoltavo gli interventi dei curati, ripensavo a quanto qualche giorno prima ragionavamo con un prete a me caro: anche lì, senza voler giocare a fare i Vescovi, era emerso il termine Sinodo Diocesano, ma a proposito della figura del prete. La stanchezza in buona parte del clero è evidente: emerge dai racconti di confratelli di tutte le età e non è legata esclusivamente alla quantità di lavoro che si deve affrontare; piuttosto, alla percezione che spesso la nostra modalità di vivere il ministero sia un “girare a vuoto”, un districarsi tra tante questioni diverse che, alla fine, portano a domandarsi a cosa conducano veramente questi sforzi, in gran parte enormi.

Peraltro, il numero sempre più consistente di parroci che, intorno ai sessant’anni, chiedono di lasciare l’incarico di parroci per diventare vicari parrocchiali di una parrocchia di grandi dimensioni o di un’unità pastorale, fa pensare. Troppa responsabilità? Troppe questioni sulle quali siamo poco competenti (economia in primis)? Troppo poco tempo per stare nell’informalità con la nostra gente? Ciascuno potrebbe raccontare la sua storia. Quello che è evidente è che, per tradizione locale, la figura del prete, sia nel modo di vedere della gente che in quello dello stesso clero, è fondamentalmente legata al ministero del parroco e del curato di Oratorio.

Certo, non mancano le eccezioni (preti impegnati in Curia o a servizio della Chiesa Italiana; preti a servizio della Santa Sede; sacerdoti “fidei donum” nelle missioni diocesane, insegnanti in Seminario e superiori), ma, appunto, sono eccezioni.

Parroci e curati: c’è troppo da fare. C’è molto da rifare

Per il resto, i preti sono parroci o curati di Oratorio (con qualche curato che insegna alcune ore nelle scuole secondarie di primo o secondo grado). Da qui nasce la domanda: nel tempo in cui la società sta cambiando, non sarebbe pensabile un ripensamento delle modalità di esercizio del ministero ordinato? Penso a un sacerdote di un’altra regione italiana che conosco: egli è parroco (e si dedica anche alla pastorale giovanile della sua comunità), direttore di un istituto superiore di scienze religiose e docente di Sacra Scrittura e Lingua Ebraica in una Facoltà Teologica. Un ministero che si divide tra studio e pastorale, dunque. Ora, lo affermo senza voler offendere nessuno, nelle nostre comunità, ci immaginiamo un parroco o un curato che dedica tempo allo studio come questo confratello? Immagino già le battutine: “al ga botép chel lè” (per i non orobici: “ha buon tempo quello”), “al ga prope negot de fa!” (“non ha proprio nulla da fare”), “al ga mia oia de sta cola set” (“non ha voglia di stare con la gente”).

La stessa sorte toccherebbe a quei sacerdoti che in altre realtà si dedicano principalmente all’ascolto delle persone, sia a livello spirituale che a livello psicologico, o ai preti che si dedicano alla formazione dei laici di un territorio o di associazioni laicali, oltre che, ovviamente, a svolgere il loro servizio liturgico e sacramentale. Certo, possiamo chiudere facilmente la questione, dicendo: “Qui è così. Abbiamo le parrocchie, i grandi oratori faticosamente costruiti e ancor più faticosamente mantenuti, quindi si deve andare avanti su questa strada”.

Ora, io non credo si tratti di “buttar via” niente, ma di pensare forme anche più incisive di presenza nel tessuto sociale. Ad esempio, un prete deve per forza insegnare solo religione? Un sacerdote che insegnasse filosofia, o lettere, o fisica, non svolgerebbe un ministero prezioso tra i ragazzi, incontrandoli là dove sono oltre, che nei nostri spazi, che vengono e verranno sempre più frequentati da chi vuole frequentarli? Mi fermo qui, sono soltanto sogni, probabilmente inutili e utopici di un curato di Oratorio. Ma se provassimo a sognare il futuro insieme?