Papa Francesco, settimo anniversario dell’elezione. Brunelli: “Propone il cambiamento attraverso la riscoperta del Vangelo”

In occasione del settimo anniversario dell’elezione di Papa Francesco, avvenuto la sera del 13 marzo del 2013 il giornalista e vaticanista Lucio Brunelli ha scritto “Papa Francesco come l’ho conosciuto io” (Gruppo Editoriale San Paolo 2020, pp. 192, 16,00 euro), che contiene alcuni preziosi ricordi di cose vissute, basato su colloqui, lettere, telefonate da cui traspare una straordinaria e delicata storia di amicizia tra il Santo Padre e il giornalista, che ha conosciuto Bergoglio più di quindici anni fa e ha continuato a frequentarlo una volta che il cardinale argentino è stato eletto papa.
Il volume, ricco di tanti episodi inediti, “che possono contribuire, forse, a una conoscenza più completa di un Papa molto rappresentato dai media di tutto il mondo ma paradossalmente poco conosciuto nelle sue intenzioni più profonde, in quella fede in Cristo Gesù che prima di ogni altra cosa, con i limiti di ogni uomo, lo muove e lo sostiene”, come precisa l’autore nell’Introduzione del testo, presenta un ritratto diverso di Papa Francesco.
Abbiamo intervistato Lucio Brunelli, già vaticanista del Tg2 (1995-2014) e poi direttore per l’informazione di Tv2000 e Inblu Radio (2014-2019), che ha seguito decine di viaggi apostolici all’estero e realizzato interviste a personalità di spicco, dal cardinale Ratzinger a Papa Francesco, e al quale nel 2013 è stato conferito il premio Giuseppe De Carli per l’informazione religiosa.
In quale occasione ha conosciuto Jorge Mario Bergoglio?
«Sentii parlare di lui e fui subito affascinato dai racconti di un amico uruguayano, Guzman Carriquiry, già nel 2001. Me lo raffiguravo come un uomo di Dio vicino ai poveri, ma severo e austero, davanti al quale forse non sarei riuscito a proferire parola. Lo incontrai di persona nel 2005 a Roma, otto anni prima dell’elezione, nell’abitazione di Gianni Valente e Stefania Falasca, che già lo conoscevano ed erano diventati suoi amici. Scoprii un sacerdote mite e persino ilare. Con il quale era facile conversare e anche aprire la propria anima. Siamo rimasti sempre in contatto. Un incontro che ha segnato la mia vita, al di là dell’aspetto professionale».
Nel libro ha definito Bergoglio un “cardinale atipico”. Per quale motivo?
«Atipico perché quando era cardinale di Buenos Aires conduceva uno stile di vita molto sobrio, lontano da ogni mondanità. Non aveva autista, viveva in un modesto appartamento, si muoveva in città con i mezzi pubblici, frequentava i quartieri più poveri e malfamati, dove operavano i sacerdoti delle “villas miseria”, le città della miseria. Quando viaggiava a Roma era da solo, all’ultimo conclave nel 2013 fu uno dei pochi cardinali non accompagnato da un segretario. Ogni mattina a Buenos Aires (ma anche adesso a Roma) si alzava alle 4.30, quando era buio, per pregare e meditare. Non disponeva (non dispone anche oggi) di telefono cellulare e non guarda la tv da alcuni decenni. Tutti questi dettagli, messi insieme, lo rendevano una figura ecclesiastica decisamente fuori dagli schemi».
La celebre frase “Fratelli e sorelle, buona sera!”, primo saluto ai fedeli dalla loggia delle Benedizioni, pronunciata dal Santo Padre a Piazza San Pietro la sera della sua elezione a Sommo Pontefice è stata davvero l’inizio di un pontificato diverso dagli altri?
«Quella sera ero in diretta, per il tg2, a fare la telecronaca della fumata bianca. Può immaginare la mia emozione quando venne annunciato il suo nome. Non l’avevo mai sentito parlare a una folla così grande e sotto gli occhi di tutto il mondo. Non ero sicuro che sarebbe riuscito ad arrivare subito, con tanta naturalezza, al cuore di tutti. Invece gli venne tutto facile e spontaneo. Quel “Buona sera” dava il segno di una Chiesa più vicina alla gente, alla normalità che ognuno vive, un atteggiamento familiare che poteva ricordare un po’ i modi di papa Roncalli. Sia nel tono cordiale, popolare, sia nell’indicare la “medicina della misericordia”, piuttosto che “anatemi e rimproveri” come il farmaco più adatto per curare i mali e le sofferenze del mondo. Ogni papa è diverso dai suoi predecessori, questa diversità è una ricchezza. Ma ciò che unisce tutti i Successori di Pietro è infinitamente superiore a ciò che li distingue: è la fede in Cristo, la speranza di una felicità possibile per ogni uomo, la carità verso i più fragili e bisognosi».
Che ricordi conserva del primo viaggio in Italia di Papa Francesco, il quale come meta aveva scelto “questo grande scoglio più vicino alle coste tunisine che a quelle siciliane”?
«Fu un viaggio emozionante. Il nuovo papa volle andare a Lampedusa per “piangere i morti che nessuno piange”: le migliaia di migranti annegati nel canale di Sicilia inseguendo il sogno di una vita migliore dopo aver patito fame e guerre. Il ricordo più nitido è quando il papa passò davanti al “cimitero dei barconi” dove mi trovavo con la troupe della Rai. Colsi il suo sguardo. Durante la messa, nello stadio assolato e senza erba di Lampedusa, vidi molte persone con gli occhi lucidi mentre il papa teneva l’omelia e parlava della “globalizzazione dell’indifferenza”. Eravamo ancora capaci di commuoverci di fronte al dramma di quelle vite perse in mare. Poi si può discutere di tutto – dei flussi da regolare, della fatica della solidarietà, dell’esigenza di sicurezza – ma se prima non c’è quell’attimo di commozione ogni parola perde umanità, diventa cinica, propaganda politica».
Tra i tanti episodi inediti presenti nel volume che testimoniano del Suo rapporto di amicizia con il Santo Padre, qual è il più emozionante e quale il più divertente?
«Il più emozionante quando mi chiamò al telefono la prima volta da papa, un paio di giorni dopo l’elezione. Io stavo scrivendo il servizio per il tg della sera, fumando una sigaretta dietro l’altra, perché ero in ritardo con i tempi. Quando sentii la sua voce mi venne un groppo in gola, mi venne da piangere come un bambino, mi scusai che non riuscivo a parlare. Lui disse di non preoccuparmi, “finisci pure, ti aspetto”, disse mettendomi come al solito a mio agio. Passai dalle lacrime al sorriso. Con lui è successo più volte, questo passaggio. L’episodio più divertente è quando mi disse, in un’intervista a Tv2000, che grazie a Dio dormiva “come un legno” e ogni giorno recitava la preghiera di San Tommaso Moro: “Signore fammi il dono del buon umore”. Spiegò che considerava l’umorismo l’attitudine umana più vicina alla Grazia, perché chi si affida davvero al buon Dio sa ridere di se stesso e persino dei propri limiti».
Bergoglio può essere considerato come un papa politico, un uomo della misericordia attiva, un uomo che apre, e aprendo divide, un Papa del coraggio e della rottura dopo la continuità, portato ad additare più le vergogne del mondo, che le insufficienze della fede?
«No, non considero Francesco un papa politico. Credo che voglia curare prima le insufficienze della nostra fede e poi le vergogne del mondo. Tra le due cose peraltro c’è un nesso stretto. È proprio il venir meno drammatico della fede, che apre un vuoto di valori in cui possono affermarsi ingiustizie e crudeltà. Chi sperimenta la novità di vita portata dalla fede in Cristo non può non avere passione per la casa comune, quindi battersi per un’economia più umana, per un ambiente meno saccheggiato, per una società più equa e fraterna. Il papa è molto impegnato su tutti questi fronti. Ma il suo vero contributo al cambiamento, anche “politico”, passa attraverso la riscoperta della fede e del vangelo di Cristo».