I frati cappuccini all’Ospedale Papa Giovanni XXIII: camminiamo per i corridoi e preghiamo

Sono soltanto in cinque nella comunità interna. Possono apparire delle forze piccole davanti a un gigante. Eppure, con il loro umile saio francescano, i piedi scalzi e i sandali, i cinque Cappuccini ogni giorno, senza risparmiarsi, continuano a percorrere i reparti dell’Ospedale Papa Giovanni anche in questi terribili frangenti del coronavirus. Del resto è una loro antica caratteristica quella di soccorrere gli ammalati, come ricordano le bellissime pagine dei «Promessi sposi» di Alessandro Manzoni, quando descrive gli sforzi dei Cappuccini milanesi accanto agli appestati nella tragica epidemia del 1630. Così hanno fatto i Cappuccini a Bergamo, quando iniziarono la loro storia e servizio nel 1773 nell’allora Ospedale Grande dei Santi Maria e Marco, nell’attuale via Locatelli (abbattuto nel 1937, resta soltanto la bellissima chiesa), chiamati dalla Repubblica di Venezia, a cui apparteneva la Bergamasca. Infatti, nessuno aveva dimenticato l’instancabile impegno dei Cappuccini del convento di Borgo Palazzo nell’assistere spiritualmente i tantissimi malati durante la tragica peste del 1630 che infierì anche sulla Bergamasca e l’assistenza ai tantissimi affamati nei tre anni di carestia che precedettero quel drammatico evento. Le autorità chiamarono i Cappuccini anche nel nuovo complesso ospedaliero aperto nel 1930 in via Statuto, poi chiamato Ospedali Riuniti, che era anche parrocchia. Nel 2012 sono passati nell’attuale modernissimo Ospedale Papa Giovanni, ora cappellania, sempre fra la stima generale.

Quando non stava infierendo il coronavirus, i Cappuccini celebravano le Messa nella moderna chiesa nei giorni feriali (alle 7,30, preceduta dalle Lodi, e alle 17) e festivi (alle 10,30 e 17), sempre molto frequentate da malati e parenti. In questo periodo di morbo, celebrano la Messa alle 7,30 a porte chiuse, come prescrivono le vigenti norme governative. «Come nelle chiese di ogni parrocchia, ospedale o casa di riposo — racconta fra Piergiacomo Boffelli, uno dei Cappuccini della comunità ospedaliera, nativo di Dalmine — celebriamo la Messa a porte chiuse. Poi andiamo nei diversi reparti. Non possiamo entrare di persona dove sono ricoverati i malati in rianimazione, ma possiamo farlo, con le dovute precauzioni decise dalla direzione, in quelle dei malati non colpiti dal morbo». Quando non vi possono entrare, i Cappuccini percorrono i lunghi corridoi dei reparti. «Camminiamo pregando e dando la benedizione a tutti — prosegue fra Boffelli —. Le nostre preghiere e benedizioni vanno ai malati, ma anche ai loro parenti che non possono accedere alle camere per visitarli e al personale medico-infermieristico che sta lavorando in modo eroico e instancabile. Le nostre preghiere e benedizioni sono accolte con immensa gioia da tutti, perché donano forza, consolazione e speranza».

Persiste il rincrescimento di non poter consolare, come i Cappuccini hanno sempre hanno fatto, i malati e i loro parenti, condividendo le loro preoccupazioni, ma anche avere un colloquio con ognuno di loro. «Prima del morbo era tutto diverso — aggiunge fra Boffelli —. I degenti parlavano molto volentieri con noi della loro salute, ma anche della loro vita, dei loro sfoghi su solitudine, famiglia, problemi». Anche i parenti si rivolgevano ai Cappuccini. «Ci chiedevano soprattutto preghiere e un sostegno spirituale e umano di consolazione nella situazione che stavano vivendo». Il Cappuccino ricorda anche il gesto affettuoso di tanti parenti che accarezzavano la statua di San Papa Giovanni XXIII posta all’ingresso centrale, ai cui piedi sono collocati tanti fiori e ceri accesi.

Foto copyright Giovanni Diffidenti