Bergamo: come viviamo sull’orlo dell’abisso, sognando una nuova primavera

“Non si chiude un abisso con l’aria” scrive Emily Dickinson e questo verso a Bergamo sembra risuonare forte come un grido nel grande vuoto delle strade, delle piazze, delle autostrade deserte della quarantena collettiva per il coronavirus.
Il deserto della città – impressionante e mai visto prima – è solo uno dei molti vuoti che dobbiamo affrontare in questi giorni. C’è anche quello che si è aperto nelle nostre vite per la lontananza delle persone più care: i parenti, gli amici. #Nessunoincontrinessuno se vogliamo fermare il contagio. C’è il vuoto delle chiese e degli oratori, il vuoto di tutte le attività sospese e rimandate.
Si è spalancato un vuoto nei nostri progetti e nelle immagini che avevamo del futuro, anche dal punto di vista economico e professionale. Fatichiamo a immaginare che cosa sarà di noi – del mondo intero – quando questa tempesta sarà passata.

Fili sottratti alla trama degli affetti

Il vuoto più straziante è quello lasciato dalle persone che se ne vanno, spesso senza neanche il conforto di un addio. Una prova durissima. Pochi giorni fa abbiamo detto addio a don Fausto Resmini, prete degli ultimi. Sono ventuno i sacerdoti morti dall’inizio dell’epidemia. Secondo L’Eco di Bergamo dai primi monitoraggi ufficiali a fine febbraio, fino a martedì 24 marzo, nella nostra provincia sono morte 1.267 persone, un bilancio purtroppo provvisorio. Ognuno di loro è come un filo sottratto a una trama preziosa di relazioni e di affetti, che sfilaccia l’intera comunità. Le colonne dei carri militari sono passate per quattro volte nel giro di una settimana per portare via le salme: due a Bergamo, una a Ponte San Pietro, una a Seriate.

La rete e le sirene: l’inquietudine dei rumori di fondo

Accanto a questi vuoti, a questi silenzi, ci sono anche tanti “rumori” che fatichiamo a tenere a bada, come quello delle sirene che turba le nostre notti. E’ impossibile abituarsi, anche quello ogni volta spalanca un abisso. Poi quello della rete, sovraccarica di notizie, contenuti e parole, spesso dense di rabbia e di confusione. Ci dimentichiamo troppo spesso quanto peso possano avere: cadono come pietre in un ambiente molto più rarefatto di prima. Se i social erano “un passatempo”, ora sono la vera piazza, “l’unico luogo” dove si incontrano le persone. A volte ci nascondiamo in questo rumore per scacciare l’angoscia di stare soli di fronte a noi stessi e alle macerie che questa guerra silenziosa, ma non per questo meno violenta, sta già lasciando. Pensavamo fosse uno sprint, invece siamo nel bel mezzo di una maratona, affrontata senza allenamento, e in tanti modi ci spezza il fiato.

Diamo un nuovo significato alla solidarietà e alla cura

Eppure il vuoto non è solo dolore, male, sofferenza, è anche possibilità. Quella, per esempio, di creare nuove relazioni, con uno stile modellato sulla cura reciproca, in modo molto più accentuato e diffuso di prima. Accade quando ogni giorno le persone si aiutano a vicenda nelle piccole e grandi difficoltà quotidiane, come portare la spesa e le medicine a domicilio. C’è chi si impegna a confezionare mascherine per poi regalarle, chi innesca catene virtuose per trovare saturimetri e bombole d’ossigeno, chi offre il proprio lavoro a titolo gratuito, come tanti artigiani stanno facendo per costruire il nuovo ospedale degli alpini alla Fiera. Quando qualcuno sui social esprime solitudine e dolore e trova subito qualcuno pronto a sostenerlo. Ci sono difficoltà apparentemente insormontabili e fortunatamente anche persone che le affrontano inventandosi soluzioni semplici, come l’ingegnere bresciano che ha ricostruito le valvole per l’ossigeno con una stampante 3d. Questa “sospensione” è un’opportunità per scoprire che le comunità sono fatte di persone, non di muri. Ci sono tanti modi per stringersi e darsi conforto anche a distanza, e che questo non è compito esclusivo dei sacerdoti. Stiamo resistendo in bilico sull’abisso, come il funambolo che cammina su un filo sospeso tra due grattacieli, avanziamo nel buio con le gambe che tremano. E’ difficile e spaventoso, ma può essere anche l’atteggiamento e il momento giusto per guardarsi dentro, per proiettare l’immagine di ciò che vorremmo diventare, dopo, come singoli e come comunità, per cercare i pilastri sui quali ricostruire. A partire dalla necessità di includere e proteggere le persone più fragili.

Ci sentiamo quasi sopraffatti dal senso di precarietà e di caducità della vita, che forse prima avevamo smarrito e che mai come adesso riguarda – in modo concreto e tangibile – tutti gli uomini del mondo, senza differenze di cultura, provenienza e condizioni sociali, uniti in questo seppure così distanti, così lontani, chiusi nei propri confini. Ci auguriamo che anche questo possa essere un punto di partenza. La resistenza è forte e si vede anche nelle piccole cose, come il mazzolino di fiori infilato tra le fauci del leone della Basilica di Santa Maria Maggiore, segno e desiderio di una nuova primavera.

Foto copyright Giovanni Diffidenti