Come sarà il futuro? Dipende da noi, da cosa vogliamo fare ed essere

Solo poco più di un mese è passato da quando le misure restrittive del governo hanno relegato in casa le famiglie italiane: troppo presto, forse, per ipotizzare uno scenario futuro post Coronavirus. Eppure, in queste settimane, fatte di silenzio e ansietà, è facile notare come alcuni fra i principali quotidiani nazionali stiano dando spazio a psicologi, sociologi ed economisti che, pazientemente, spiegano come l’epidemia di cui stiamo facendo esperienza, inevitabilmente, lascerà un segno indelebile dentro di noi e trasformerà, per sempre, la nostra civiltà. È umano e comprensibile, del resto, che, in un momento di smarrimento generale come quello che stiamo affrontando, l’uomo proietti, nel mondo che verrà, la risposta alle proprie domande: pareri e previsioni che si fanno chiavi di lettura del tempo presente, sforzandosi di dare forma alle giornate dolorose che stiamo vivendo. Dinamiche, queste, che non riguardano solo opinionisti, teologi o esperti di geopolitica, ma anche cittadini comuni. Dalle nostre abitudini alla percezione dell’altro, passando per il modo di vivere e pensare: ognuno è convinto che molte cose muteranno, chi in bene (un rinnovamento culturale, morale e spirituale), chi in male (danni economici, ovviamente, ma anche un giro di vite sui diritti, un restringimento delle libertà individuali e civili, un’epoca di incertezza e sospetto).

Gli schemi precostituiti sono saltati

Va da sé che, proprio in una situazione di sofferenza come questa, in cui gli schemi precostituiti sono saltati, bisogna saper rizzare le orecchie e aprire gli occhi, così da poter separare il grano dalla zizzania, ovvero discernere fra ipotesi ragionevoli e chiacchiere, come quelle cariche di facile ottimismo o, peggio, di allarmistiche supposizioni, condite, a volte, da compiaciuto cinismo. Ipotesi, paure e speranze che non soffocano, comunque, l’insanabile voglia di polemica di politici e amministratori, che, puntualmente, si rinfacciano la mala gestione dell’emergenza che, da fine febbraio, attanaglia il nostro Paese. Dibattiti sempre più spesso inopportuni e un po’ strumentali, che alimentano divisione e risentimento e che, probabilmente, evidenziano come, almeno per ora, con buona pace di chi auspica o teme una trasformazione della società, nulla sia realmente cambiato nel nostro modo di rapportarci all’altro e alla comunità. Dibattiti che fanno rima con i capricci di chi non ne può più di star chiuso in casa. Di chi vorrebbe andare a fare shopping senza pensieri, trovarsi con gli amici per la partitella del venerdì, per l’aperitivo del sabato o per il cinema della domenica, così, magari, da immortalare tutto con un selfie, per poi postarlo su Instagram o su Facebook. Del resto, abbiamo vissuto così tanto a lungo con il piede sull’acceleratore, che, adesso, assuefatti alla frenesia con cui abbiamo condotto fin qui la nostra vita, facciamo fatica a fare i conti con la solitudine e la vuotezza delle nostre giornate.

La costrizione ci mostra cosa è importante

La costrizione ci sta facendo capire l’importanza di tutto ciò che, in questi ultimi decenni, abbiamo dato per scontato: l’autonomia, la libertà e quanto possano essere rassicuranti e piacevoli le nostre dolci abitudini. Ma ci sta anche insegnando a capire come la vita non possa essere circoscritta solamente a quegli svaghi che, sempre più spesso, riempiono il nostro tempo, svuotando la nostra mente; come la vita non sia solo «negozi e vacanze». Forse, la nostra sofferenza, la sofferenza che, maggiormente, in queste giornate di reclusione volontaria, avvertiamo, non è quella causata dal non più poter prenderci determinate libertà, ma dalla consapevolezza di aver limitato la nostra vita a certi piccoli diritti borghesi, di cui andiamo fieri e orgogliosi, ma che, ineluttabilmente, ci hanno resi un po’ più schiavi. «L’illusione di essere invincibili è brutalmente infranta, ritorna il senso della misura e del limite – ha detto il cardinal Bagnasco, durante l’omelia di domenica scorsa –. È come riaprire gli occhi alla verità».

Una metamorfosi che parte dall’interno

Forse è anche per questo che, quando parliamo di cambiamento futuro, identifichiamo il cambio passo e il giro di boa con qualcosa che si manifesterà all’esterno (come divieti o contenimenti), perché, inconsciamente, temiamo molto di più la metamorfosi del nostro Io: non tanto a livello psicologico, bensì esistenziale. La domanda che emerge, allora, è: questo periodo di prova e sacrifici può davvero cambiarci e, magari, volendo essere fiduciosi, cambiarci in meglio? Probabilmente sì, se accettiamo di aprire il nostro cuore. La lentezza con cui, obbligatoriamente, affrontiamo questi tristi giorni potrebbe farci ritornare in armonia con i ritmi biologici e per niente frenetici della natura (di cui siamo figli); l’alto tasso di mortalità potrebbe, invece, aprire le porte per una riflessione seria e matura sulla caducità dell’essere umano (contro ogni prometeico delirio di onnipotenza) e sull’importanza della ricerca e della sanità pubblica, mentre l’“esilio domestico” che stiamo affrontando dovrebbe interrogarci sulla condizione di chi la prigione la sperimenta davvero: non dal salotto di casa, ma da un centro di detenzione libico.

Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva

E che dire del silenzio che ci circonda? Potrebbe forse insegnarci a scegliere le parole opportune e a tacere quando non si ha nulla di ragionevole da proferire. Certo: non è facile abbandonare la propria comfort zone per perseguire un esame di coscienza veritiero, che metta ogni cosa a suo posto, in ordine, in modo da valorizzare ciò che più conta nella vita e che possa bucare quell’opaca patina di parvenza e voyeurismo, fatta di “like” ed emoticon, che abbiamo barattato con la realtà. «Dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva», recita un verso di Hölderlin. L’augurio, al di là del pessimismo (per niente costruttivo), è che possa essere così e che questo periodo di prova e sacrifici accresca empatia e compassione. «Niente sarà più come prima», si continua a leggere ormai dappertutto. Forse sì, o forse no. Forse sarà un bene, o forse no. Chi lo sa? Oggi più che mai, però, dipende tutto da noi: da cosa vogliamo fare e da chi vogliamo essere.