Coronavirus: ci riscopriamo fragili, con lo smarrimento dei “sopravvissuti”

“Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie” scriveva nel luglio 1918 Giuseppe Ungaretti: la sua poesia “Soldati” riflette un tempo in cui la Prima guerra mondiale era alle ultime battute. Stava per incominciare anche la pandemia d’influenza spagnola che in due anni si portò via cinquanta milioni di persone. In quei versi vibrano come detonatori la fragilità e la precarietà della vita. Una sensazione che nell’ultimo mese è tornata ad essere familiare anche qui, nella provincia di Bergamo, dove secondo i dati della ricerca de L’Eco di Bergamo e InTwig sono morte oltre 4500 persone (un dato, purtroppo, ancora in divenire).

Paesaggio intriso di dolore, certezze spazzate via

“Nell’era in cui si ‘scompariva’ e si veniva a ‘mancare’ – scrive don Giuliano Zanchi nell’ebook “I giorni del nemico” in distribuzione gratuita sul sito di Vita e pensiero -, si è improvvisamente ricominciato a ‘morire’ e si è toccato con mano quanto conta potersi ‘congedare’ umanamente”.
Una sotterranea tensione verso l’immortalità aveva pervaso la scienza, la società e la cultura negli ultimi vent’anni e forse non è bastata questa tempesta di poco più di un mese per cancellarla. Eppure il nostro sguardo, in qualche modo, è cambiato, dalle finestre non vediamo più lo stesso mondo. Il paesaggio che osserviamo dalla nostra “prigione” domestica è spesso intriso di dolore. Le priorità sono state quantomeno messe in crisi, se non ancora sovvertite.

La perdita dei modelli e delle abitudini consolidate

Non solo perché la pandemia ha spazzato via così tante persone, ha intaccato profondamente i nostri affetti, le nostre reti familiari, le relazioni. Lamentiamo già una perdita più generale e profonda delle certezze, delle abitudini consolidate, dei modelli che abbiamo usato finora per decifrare la realtà. Sentiamo per adesso soprattutto la rabbia (che non sappiamo ben incanalare) e lo smarrimento dei sopravvissuti, senza comprendere pienamente in che cosa consista la nostra “eredità”, cosa resterà dopo lo tsunami, come dovremo occuparcene, quale futuro ci toccherà costruire quando potremo di nuovo varcare la soglia di casa. Sappiamo che ci sarà molto lavoro da fare, qualcuno ci sta già pensando, anche concretamente. Riusciamo a intuire i numerosi terreni di confronto-scontro politico e ideologico che già si profilano ad ogni livello.

Se la speranza si può allenare come un muscolo

E’ come se quest’anno portassimo le tappe della quaresima scolpite sulla pelle, fino alla morte di Cristo che si ricorda nel venerdì santo. La tappa che ci manca, guarda un po’, e di cui sentiamo – laicamente – desiderio e mancanza è la rinascita. Pablo d’Ors, prete e scrittore spagnolo, ci ha detto in questi giorni, quando l’abbiamo intervistato su fede e spiritualità ai tempi della pandemia, che per i cristiani in questo momento “la speranza dev’essere la missione fondamentale”. Non solo una parola, ma un impegno, un lavoro, una virtù che non si può ridurre a semplice ottimismo e che bisogna (faticosamente) costruire. Crediamo che forse questo sia l’esercizio e insieme l’augurio più bello che possiamo farci a vicenda per i giorni di Pasqua: fermi nelle nostre case, forse possiamo avere l’occasione di allenarci per questo come se la speranza fosse un muscolo.

Il punto di partenza potrebbero essere i numerosi piccoli gesti pieni di bellezza a cui assistiamo in questi giorni: l’abnegazione di medici e infermieri, la generosità dei volontari, come quelli (mille solo in città) che ogni giorno stanno vicini agli anziani e alle persone in difficoltà, e come quelli che hanno realizzato l’ospedale della Fiera a Bergamo. E ancora le tante donazioni, la solidarietà reciproca fra le famiglie, a sostegno di chi soffre di più. Come scrive ancora don Giuliano “è il momento della cura reciproca estesa in ogni fibra del nostro corpo comunitario”. C’è già tanta luce che entra dalle nostre (numerose) crepe.

Foto di Giovanni Diffidenti