Il futuro dopo l’emergenza. Don Cristiano Re: “Dovremo chiederci cosa è davvero essenziale. Una responsabilità di tutti”

Quali potranno essere gli scenari futuri post-Covid 19? In questi giorni si parla molto di superamento della Fase 1 e sui graduali passaggi di riapertura e ripartenza del paese. Ma quali saranno i profondi cambiamenti che dovremo affrontare nella nostra società, nel mondo del lavoro e nelle nostre comunità? Per rispondere a questi interrogativi ne abbiamo parlato con don Cristiano Re, direttore dell’Ufficio per la Pastorale Sociale e del Lavoro della Diocesi di Bergamo, che nell’intervista che vi proponiamo ha affontato temi di grande attualità e che assumeranno sempre più peso nel dibattito politico-culturale del prossimo futuro: patrimoniale, scelte politiche condivise e di visione, economia post-consumista, nuove sfide per la comunità cristiana ed estrema polarizzazione delle posizioni su accoglienza e chiusura al prossimo. Per finire con i “vuoti” che si sono creati e che andranno colmati.

Don Cristiano, può aiutarci a delinare i possibili scenari futuri post-coronavirus nella società e nell’economia? Partiamo dal livello politico, dalle scelte che sono state fatte e che andranno fatte nell’immediato futuro.
“La cosa che mi sta più a cuore è che bisogna compiere un grande esercizio di memoria per tenere a mente ciò che è successo – ha sottolineato lo stesso don Cristiano Re – la questione di fondo, senza entrare in tecnicismi, riguarda lo sguardo sulla complessità: quando devo decidere se fare una zona rossa o chiudere una fabbrica occorre una capacità di intelligenza di insieme importante, con un processo condiviso a livello decisionale che va costruito a priori. Occorrerà sempre più la capacità di prendere decisioni che tengano al centro questa complessità: oggi assistiamo a dibattiti sulle responsabilità, dell’ospedale, delle aziende, del governo e della Regione, ma la vera questione di fondo non riguarda le responsabilità singole, ma lo sguardo d’insieme in grado di andare oltre questi singoli ambiti di competenza”.

Anche il mondo del lavoro e dell’economia sono stati pesantemente investiti dallo tsunami Covid-19 e gli ultimi dati parlano di una caduta del Pil pari al 9,1 per cento in Italia. Quali possono essere le soluzioni possibili per ripartire davvero?
“Per quanto riguarda il tema del lavoro e dell’economia dovremo chiederci che cosa è veramente essenziale: in una dimensione di emergenza quali sono le priorità? La nostra idea di lavoro e di soldi, che peso hanno dentro la nostra vita? Dobbiamo essere molto onesti e ammettere che una fascia di persone, tra cui imprenditori e la classe dirigente delle imprese non abbia intravisto il pericolo, così come molti lavoratori non vedevano di buon occhio la chiusura della aziende. Dobbiamo ridirci che cos’è il lavoro per noi. Per quello che vedo io, in contatto con il mondo del terzo settore, dell’impresa profit, del mondo politico l’intenzione è esattamente quella che se vogliamo far ripartire l’economia bisogna dare soldi agli italiani. Magari ripartirà l’economia, attraverso la logica del consumo, ma questa non è forse l’occasione per ripensare modelli che non siano quelli di far girare l’economia spendendo soldi? Tendenzialmente non ci sono altre visioni al di là di questa, ma è un punto su cui sto riflettendo molto”.

L’intervento dello Stato è sempre più invocato da tutti i settori: come si potranno conciliare le esigenze legittime di sostegno alla tenuta del paese?
“C’è una percezione buona della classe politica attuale che sta risponendo all’emergenza, ma manca una visione politica rispetto all’economia del lavoro. C’è anche una sottovalutazione di quello che l’Europa sta mettendo in campo, con tutti i limiti del caso, e così quello che emerge è solo la chiusura degli stati. C’è bisogno di altre visioni, che siano un po’ più ampie. Non dimentichiamoci che questioni importanti, come l’Ilva, rimangono lì sul tavolo, così come la questione del post-emergenza: le imprese che riusciranno a stare in piedi ne verranno fuori, ma moltre altre no. Per le Pmi non avere entrare per un mese significa dover tirar fuori molti soldi: per questo occorre agevolare la ripartenza. Come? Ci sono grossi capitali che sono fermi sui nostri conti correnti: presi singolarmente magari sono quantità limitate, ma insieme costituiscono un vero patrimonio. Siamo un popolo sufficientemente maturo per poter dire di voler investire sulla ripartenza? Io vedo molta immaturità diffusa su questo punto fondamentale”.

Come ci ha cambiato e come stiamo cambiando in questo periodo difficile?
“Tra le parole chiave dell’immediato futuro, come ha evidenziato anche Papa Francesco, ci sarà il fatto che l’immunità sta nella comunità. Non sono convinto che quando potremo tornare ad incontrarci tutti saremo disposti ad una maggiore inclusione, accoglienza e cura della relazioni. Tanti, impauriti, reagiranno con maggiore chiusura. Non mi sto riferendo solo ai migranti, ma al senso più ampio dell’accoglienza: chi ha già una predisposizione verso l’altro sentirà ancora di più questa spinta, mentre chi era su posizioni di chiusura potrebbe accentuare negativamente queste rigidità. Come comunità cristiana siamo chiamati ad un grosso lavoro per costruire questa immunità: dobbiamo ripartire guardandoci in faccia e identificare ciò che è centrale e ciò che è periferico. Ci sono i vuoti che si sono creati e che andranno riempiti: questi vuoti ce li portiamo addosso, e sembra che non possano essere colmati. Dobbiamo essere capaci di dire: con che cosa li riempiamo?”