Covid-19, Bergamo è la città delle mille storie. I preti accanto ai convalescenti: “Ascoltare è la prima cura”

Che Bergamo sia la città dei Mille è noto, ma che durante questa epidemia Bergamo sia diventata la «città delle mille storie» è ancora tutto da scoprire: è così che don Cristiano Re, assistente di ConfCooperative a livello diocesano, descrive queste quattro settimane durante le quali ha incontrato, continuando a farlo, le persone che, dimesse dagli ospedali, sono state accolte presso le strutture alberghiere gestite dal terzo settore perché ancora positive al virus, anche se asintomatiche, e per questo impossibilitate a rientrate al proprio domicilio.

«Dopo la fase della cura, si è pensato a quella del prendersi cura» commenta don Cristiano, che continua «tra i servizi che il terzo settore ha pensato di mettere a disposizione di queste persone, ConfCooperative ha ritenuto importante la presenza di un sacerdote, accanto a quella degli operatori sanitari, di psicologi ed educatori, quale presenza di ascolto». Don Cristiano due pomeriggi a settimana va al Winter Garden Hotel di Grassobbio per essere presenza che incontra e ascolta le persone che trascorrono le proprie giornate nella solitudine della propria stanza: con indosso tutti i dispositivi di protezione individuale, indispensabili per coloro che entrano nella cosiddetta “zona rossa”, incontra prima coloro che vogliono raccontare la propria storia, poi, anche soltanto per un saluto, tutti gli altri ospiti; in aggiunta, la domenica pomeriggio, adottando le misure preventive, quali DPI e distanze di sicurezza, guida un momento di preghiera comunitaria nel cortile dell’hotel.

L’esperienza di don Cristiano è intessuta di storie e comunità, storie preziose perché uniche, eppure accomunate dalla riconoscenza estrema per quella che tutti riconoscono come una seconda opportunità che la vita ha loro donato e per loro che sono stati loro accanto nei giorni di attesa nei corridoi stracolmi degli ospedali e nella terapie intensive, dalla dolore delle perdita e dalla «paura che resta addosso di essere possibile fonte di contagio, dalla sensazione di rientrare nel mondo per uscire dalla solitudine lacerante che non è, però, assenza nel cuore dei propri cari, ma cura dei profondi temi della vita».

Fare esperienza di queste storie di malattia è, secondo, don Cristiano, arricchente tanto quanto stancante per il suo essere un’esperienza di unità e senso, un’esperienza di senso di comunità, che inevitabilmente porta ad interrogare, sacerdoti e non solo, sul senso di comunità da ricostruire: «il rischio che si corre è quello che, passata l’emergenza, non si sia più predisposti a stare insieme, percependo l’altro come una malattia. Il rischio è quello di un peggioramento dell’altro, che oltre che diverso per la sua alterità, ora diventa anche una malattia». Per quanto si siano prodigate iniziative di solidarietà e rinnovata umanità, la distorta percezione dell’altro è un passaggio fondamentale da rielaborare cosa significa l’essenzialità dell’essere comunità.