La pandemia e le domande dei giovani. L’attenzione, la cura e la paura del futuro

La pandemia vissuta nelle nostre comunità cosa apre tra le generazioni? Quali solchi, quali canali? Quale sguardo e quale sentire attiva, quale rispecchiamento? Quale distanza, quale riconoscimento? Quale desiderio, quale attesa? Pubblichiamo la seconda parte del testo di Ivo Lizzola, dedicata ai giovani. Leggi la prima parte qui.

I più giovani hanno avuto più visibilità in queste settimane, sia perché impegnati in lavori “esposti” (nella sanità, nella cura, nella comunità d’accoglienza), sia perché protagonisti delle “imprese” sociali come la costruzione di ospedali da campo e d’emergenza (a Bergamo, Milano, Cremona, Brescia …), e come la stesura della rete di presenze e assistenze della Protezione civile. Mentre molti di loro sono stati attivati e attivi, altri nelle case han fronteggiato contagi e fragilità di padri e di parenti o di vicini anziani. In quotidianità intense, impegnative. Mentre perdevano lavoro, prospettive ed opportunità, magari faticosamente recuperati.

I più giovani, molti dei quali più attivi in queste settimane, anche per la loro minore esposizione al virus, e per la loro maggiore capacità di reazione, attendono ora riconoscimento, nuove opportunità, fiducia. E sostegno per reggere tra lavoro e formazione la definizione di progetti di vita in autonomia. Rassegnati e logorati da un precariato “permanente” che li stava tenendo ai margini nelle riserve, ora temono che il futuro ne sia ancor più segnato. Temono di perdere il futuro, la possibilità di respiro, di visione.

Temono lo schiacciamento su un vivere più fatto di tattiche che di strategie. Queste ultime chiederebbero luoghi aperti e cooperativi di responsabilità condivise, di immaginazioni ben pensate con il contributo di diverse competenze, di coinvolgimenti aperti, con coperture di credito, con chiari criteri di valore. Si allestiranno con loro luoghi del genere? Sapranno allestirli loro? Saranno ascoltati da chi governa, e da chi, d’altre generazioni per lo più, detiene molto potere e molte risorse? È una generazione quella giovane che vive una tensione e non sa bene come potrà distenderla. Ed è a rischio di ripiegamento: si sente senza riapro, in molti suoi componenti. Attende futuro, attende invio, attende spazio: e va chiamata con forza esigente a giocarsi alla responsabilità, alla libertà, alla novità. Quella di una ricostruzione.

Molti morti tra le braccia d’altri e spesso lontani, sono uomini e donne che la ricostruzione dopo la guerra e il totalitarismo l’hanno realizzata: da giovani, incerti, con limiti, sentendosi affaticati, ma con passione, forza, valori e ne sono stati capaci.
Una ricostruzione richiederà, nelle diseguaglianze e nella povertà, una generosità e uno sguardo di futuro, un senso di debito e di dignità personale molto forti. Altrimenti le grandi ideologie del merito e del successo, false e pericolose, e quelle del rancore sociale rabbioso che legge tutto disperatamente in termini di diritti per sé, faranno da barriera alla possibilità di ricostruire i legami e di avviare un nuovo cammino comune. Ci sarà bisogno di riti di riconciliazione e di progetti di dedizione reciproca e per farlo, se servono risorse e intelligenza, servono anche atteggiamenti interiori adatti. Servirà un senso forte di destinazione dei propri gesti.

Nel fuoco della pandemia abbiamo scoperto e vissuto il dono, la gratuità come propri e come possibili di ogni nostro gesto: sul lavoro, in casa, nella professione, nelle comunicazioni. Lì o ci siamo offerti o ci siamo serbati solo per noi stessi, per la nostra sicurezza, la nostra parte. La prossimità e la cura (lo abbiamo visto nonostante le retoriche e le “rappresentazioni” di molti sulla scena) appartengono agli umili, ai debitori, ai provati. Sono dimensioni cui accedono e che vivono donne e uomini non innocenti, non perfetti, solo riconoscenti.

Le donne e gli uomini sono capaci di essere donne e uomini della promessa quando la promessa non si sta ancora manifestando, non la si vede. Loro continuano a tenerla stretta tra i denti, nei gesti e nelle scelte, nelle attenzioni che hanno gli uni per gli altri. Come una specie di anticipo. Prima che ci sia, in una specie di già (pur parziale, e improprio) di un non ancora. Donne e uomini non innocenti, un po’ buoni e un po’ cattivi, sono nella capacità, insieme, di una promessa, di una novità perché riescono a serbare gli uni per gli altri un po’più di buono e un po’ più di promessa. Così riaprono il cammino. È quello che noi possiamo augurarci oggi.

Come vivere la responsabilità negli eventi drammatici nei passaggi verso l’incerto e il nuovo? Dietrich Bonhoeffer ci dà il segnavia “Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in questo passaggio, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene?”

(Testo tratto dal numero monografico della rivista mensile Dialoghi di Azione Cattolica nazionale dedicato a “Fede e pandemia”. Seconda parte, fine).