Preti che mancano preti che avanzano. E laici “dimenticati”. Annotazioni a margine della pandemia – 02

Molti preti anziani, pochi preti giovani. Pensando alla Chiesa del futuro

Ho ripreso a celebrare. Rischiamo, anche in questi giorni, di essere più celebranti che fedeli. Il che rilancia una considerazione forse scontata ma importante. I preti sono sempre meno numerosi, ma soprattutto sono sempre meno, drasticamente meno, i preti giovani e sono sempre di più i preti vecchi. Questo provoca una specie di forte, profondo squilibrio pastorale.

I preti vecchi celebrano e, qualche volta, confessano. Ma non fanno altra pastorale: non seguono ragazzi e giovani, non fanno catechesi, non animano caritas e gruppi caritativi, non tengono gruppi di spiritualità biblica o liturgica. Con alcune eccezioni, ovviamente, poche. Solo che ciò che i preti vecchi fanno serve sempre di meno alle comunità cristiane. Le messe sono troppe e il primo problema non è conservarle così come sono e tanto meno aumentarle, ma diminuirle. (Fino a prima della pandemia in città alta, Bergamo, si celebravano, tra il sabato pomeriggio e la domenica, per poco più di 5.000 abitanti, oltre venti messe). E per quanto riguarda le confessioni non c’è bisogno di diminuirle perché ci hanno già pensato i fedeli.

Sicché siamo costretti a prendere atto di una situazione strana: ci sono molti “operai” (“Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe”, dice Gesù nel vangelo) dove il lavoro è poco e, viceversa, pochi operai dove il lavoro è molto. Non è l’unica e forse neppure la più grave delle anomalie che la Chiesa di oggi deve attraversare.

Il problema resta, apparentemente, insolubile. Diventa solubile se si cambia  punto di vista. E cioè se l’animazione delle comunità cristiane non viene considerata compito esclusivo dei preti, ma compito di tutti, religiosi e laici in particolare. Di laici impegnati, per la verità, ce ne sono già. Ma sono pochi rispetto ai grandi bisogni dell’intera comunità cristiana. Ed è necessario spingare con coraggio in quella direzione. Diciamolo in altri termini: se la Chiesa così com’è avrà il coraggio di cambiare, vivrà. Altrimenti resterà prigioniera della sue debolezza e rischierà, alla fine, di implodere.

Pianti e applausi

La ripresa, si legge in alcuni titoli di giornale, è “tra pianti e applausi”. E si capisce. Si piange su chi non c’è più. Adesso si può entrare nei cimiteri. La vista della tomba di una persona cara è la “presa d’atto” drastica di una distanza, non quella che noi che siamo rimasti, dobbiamo tenere tra di noi, ma quella che è stata scavata, profondissima, fra noi e loro.

Poi, forse la stessa persona che ha pianto, applaude ai suoi nipoti che riprendono a giocare, agli amici che torna a incontrare, alla vita che riprende, in una parola. Noi umani siamo degli strani animali costretti a passare dalle lacrime agli applausi, perché siamo gli unici esseri viventi che ridono: animal ridens, è stato definito l’uomo. Ma proprio perché siamo gli unici esseri viventi capaci di ridere, siamo anche gli unici condannati a questa strana pena: passare da un estremo all’altro, dall’esaltazione frenetica del riso, a quella deprimente e depressiva del pianto.